UN INTERLOCUTORE INDIFFERENTE

inedito

 
Antonio Di Cicco - Un interlocutore indifferente (1955-56)
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Al nuovo insegnante di lettere il preside prof

Al nuovo insegnante di lettere il preside prof. Adalberto Maria de Caesaris non aveva potuto fare a meno di parlare dei suoi domestici colloqui con le Muse.II nuovo professore aveva intelligenti occhi azzurri, chiari, buoni, ed era molto giovane. Sembrava quasi uno studente di quelli ripetenti, delle ultime classi del liceo, e ispirava affetto e fiducia. Ma aveva preso subito un atteggiamento di circostanza, apprensi vo per di più, non appena egli, Adalberto Maria, aveva detto dei suoi versi latini. Come se in un batter di ciglia egli si fosse trovato di fronte a una persona diversa dagli occhi gelidi e grifagni, pronti allo scherno. Così non aveva potuto leggere bene nel pensiero di quel suo nuovo possibile lettore ed era rimasto addirittura turbato, come del resto accadeva sempre quando conosceva una persona nuova che non si era cioè ancora del tutto squalificata ai suoi occhi. Aveva sentito il peso di quel destino che lo portava a disprezzare la maggior parte degli uomini e questa sua periodica sensazione aveva sempre la forza della scoperta improvvisa. "Siamo tutti dei centonisti" aveva aggiunto come per concludere frettolosamente e per quella volta non aveva detto quelle parole rituali per lui per l'abitudine contratta da quando aveva preso animo a parlare dei suoi versi, per pudore istintivo e insieme per mimetizzarsi temporaneamente tra persone per definizione mediocri in modo che poi dalla lettura più meravigliosa risultasse l'intelligenza poetica delle sue meditazioni. Come infatti potevano essere mediocri quelle sue immagini nette, pure, stagliate, degne senz'altro di certe sculture ovidiane? Anzi sempre di fronte alla finitura dei suoi versi, alla chiarezza e alla rotondità delle immagini, alla sonorità armoniosa della lingua e al vario e polifonico fluire dei metri, egli si sentiva consolato e nello stesso tempo incompreso. Adalberto Maria de Caesaris in quanto poeta aveva sempre sinceramente rifiutato il plauso degli uomini volgari, dell'uomo in quanto massa diceva talvolta con la coscienza di usare un neologismo pericoloso ma espressivo. Era sempre rimasto convinto che la gloria di un uomo rimane legata all'assenso di poche individualità componenti di una reale repubblica delle Lettere. Ma per colpa forse dei tempi non era riuscito a trovare quegli estimatori (pauci sed apti) dai quali desiderava essere inteso e ammirato. Anche da Amsterdam la vittoria al concorso di poesia latina gli aveva fornito poche ragioni fondate di soddisfazione. Dopo il tumore di gaudio connesso con il telegramma da Amsterdam egli ben presto si era sentito assassinato proprio dall'unico riconoscimento che aveva avuto dalla vita. Infatti la motivazione del premio dimostrava chiaramente 1'incomprensione della sua poesia e della sua sensibilità. Avevano davvero premiato un centonista e non un poeta come malgrado tutto aveva sempre saputo di essere. La bruta realtà quotidiana era pur vero che non lo interessava, ma sentiva che la sua sensibilità era moderna nuova non risolventesi in pura anche se raffinata imitazione. Non era cioè un tecnico, un metrico, mentre la motivazione del premio insisteva soltanto su questo. Pure niente poteva prostrare del tutto Adalberto Maria de Caesaris. Come Anteo con la madre Terra, egli riprendeva forza e serenità apollinea dal quotidiano commercio con le Muse. Non poteva a lungo giacere nell'insoddisfazione e nell'infelicità, e non conosceva la triste ipocondria. Gli piaceva mangiare e dormire a lungo e alla sera, dopo una giornata di lavoro, negotium particolarmente gravoso, quando si ritirava nel suo studio l' entusiasmo e il desiderio del lavoro lo riprendevano puntualmente. Molte delle sue liriche erano ad Apollinem e Adalberto Maria de Caesaris conosceva genuinamente la gioia del raptus apollineo. Apriva i suoi testi e leggeva ad alta voce modulando con timbro educato i metri lenti e sostenuti di Virgilio come quelli ariosi e concitati di Orazio. E sull'onda di quei suoni armoniosi che nel suo orecchio si completavano con accordi di cetra, egli componeva i suoi versi rammemorando parole e combinazioni metriche. Il piano del suo tavolo si popolava e assumeva tutti i colori dell'iride e dalla comtemplazione di quelle visibili fantasie nascevano versi che erano come l'eco della viva voce dei suoi personaggi e delle sue parlanti montagne. Perciò Adalberto Maria de Caesaris componeva sempre a voce alta e non scriveva subito i suoi versi ma si serviva, per esclusivo ossequio alla spontaneità e alla velocità dell'ispirazione, di quel moderno mezzo che è il registratore. Questo non si era capito ad Amsterdam, che egli non era un imitatore esterno ma un moderno poeta che per elezione, per cultura, per spregio della volgarità si serviva della lingua latina. Con tutta l'obiettività di cui era stato capace egli aveva sempre sentito di poter ripetere le parole della poetica dello Chenier sul contenuto nuovo classicamente atteggiato e mai aveva provato l'attimo di sconforto che gli scoprisse la miseria dei suoi concetti e l'armonia delle parole non sue. Non era un caso che nella abbondante produzione del de Caesaris figurasse la traduzione in latino della parte più significativa dell'opera del rispettato poeta francese. Poteva caso mai passare tra i suoi colleghi poeti in latino per un rivoluzionario se non addirittura per un adulteratore delle immutabili tradizioni classiche. Tuttavia il colloquio con il giovane insegnante la mattina, non si era risolto in maniera chiara. Adalberto Maria de Caesaris non sapeva che cosa avesse pensato di lui il nuovo professore, cosa di cui niente gli importava, ma l'atteggiamento del giovane gli aveva suscitato una amara e nebulosa sensazione che invece di disperdersi andava aumentando col passare del giorno. In sostanza aveva capito che l'imbarazzo del giovane interlocutore era soprattutto indifferenza per quel lungo parlare che ex abrupto il preside veniva facendo. Il de Caesaris si era sentito ferito e relegato in una solitudine senza orgoglio, senza la coscienza di essere un modello, un esemplare. Altre volte era stato felice di quella stessa sensazione perchè aveva avuto origine nella sua anima senza sollecitazioni esterne, e gli era piaciuto immaginare la palma svettante sul deserto a cui aveva dedicato più di una poesia. Ma imposta dagli altri la solitudine pesava. Ora sentiva che quel suo monologo continuo, prolungato, non era bello perchè era inutile, non era buono perchè vano. Come quando passava per i corridoi del liceo con aria ispirata e il segretario toccando col gomito l'applicato di segreteria commentava "compone!". Così quella sera tutta la sua stessa vita gli sembrò vana, male impostata, mal vissuta. Stare sempre ai margini della foglia significava correre il rischio di cadere e ora si sentiva davvero sospeso nel vuoto. Non potè fare a meno di capire che occhi caldi, buoni, interessati alle manifestazioni della vita, potessero riaprirsi gelidi e scostanti davanti al suo assurdo dettar versi al registratore, agitato da un incomprensibile e maniaco sentire. E immaginando lo scherno e forse la pietà di possibili spettatori si sentì nuovamente dolorante, sentimentalmente ferito. Cercò per la prima volta il linimento di parole dolci e rassegnate ed era un aspetto nuovo e debole della sua personalità che veniva scoprendo tardi, alle soglie della vecchiaia. Sentì che la sua pace era finita. Il suo studio non gli apparve più come un rifugio solido, senza perturbazioni atmosferiche ma ben piantato sui robusti fianchi dell'Olimpo, ma aereo, ondeggiante nel vuoto, pericolante. E così era stata la sua vita, un rifuggire da un pericolo visto e temuto verso un altro pericolo che non sembrava tale ed era più pernicioso proprio perchè ingannevole. Aveva evitato tutte le questioni con gli altri uomini ed era riuscito a passare indenne attraverso le strettezze e le angoscie della storia e ora si accorgeva che questo era potuto succedergli soltanto per mancanza di virtù. I suoi rapporti, guasti ormai, con la moglie erano stati dominati dall'egoismo; e i rapporti con la vita politica manipolati dalla smania della ammirazione. Si era trovato in gioventù ad approvare il fascismo proprio perchè pensava che gli avrebbe portato quel rispetto esteriore proposto all'uomo che vaga tra le divinità, muta venerazione senza lettura che gli era sembrata l'apice della gloria terrena. Guardando per abitudine il piano del suo tavolo Alberto M. Caesaris si compianse e si disprezzò. E il piano del suo tavolo divenne, come egli sempre aveva voluto, una scena, uno spettacolo. Ma la visione fu spontanea, non sapientemente preparata da lui e riuscì nuova, geometrica. Vide infatti una parata di guardie di finanza in motocicletta. Uno di quegli esercizi di abilità in cui tutto è cronometrato al secondo e l'abilità consiste nell'obliquo intersecarsi dei motociclisti correnti con spavalderia nel chiasso dei motori. Le linee oblique tracciate dagli uomini erano senza interruzione, senza fratture. Davano l'idea del movimento infinito armonico, arcanamente regolato come i fianchi di una montagna precipite danno agli occhi seguaci l'altezza infinita fino a che improvviso compare il cielo. Ma le guardie in motocicletta erano diventati uomini nudi che camminavano a piedi. Il ritmo del movimento era solo rallentato ma conservava lo stesso timbro. Era un quadrato perfetto entro cui gli uomini camminavano seguendo le stesse linee oblique intersecandosi senza toccarsi. Comparivano dai quattro lati non tracciati, dal nulla. Il rumore del loro movimento si fonizzava assurdamente. Gli uomini camminavano plic plic seguendo la linea toccata in sorte e ploc svanivano nel nulla. Plic...plic...ploc. Plic... plic...ploc. Adalberto M. de Caesaris provò immediatamente un forte dolore al petto perchè in quel ritmo non comprendeva sè stesso. Si trovava ai margini del quadrato, solo nel nulla, ma non c'era piacere nella comtemplazione. Il piacere era nella contemplazione di cose fantastiche, dai contorni rotondi, dal ritmo vario, non di quell'ossessionante rudimentale figura geometrica. Distolse gli occhi dal piano del suo tavolo cercando la quiete nell'immobilità ma il ritmo plic plic ploc continuava e l'eco di quel movimento gli scorreva nella schiena con nuovi brividi di paura e di dolore. Era così. Aveva per decenni potuto dare ascolto e attenzione a spettacoli creati dalla sua fantasia e ora di fronte a quel linguaggio sconosciuto aveva per sempre conosciuto il dolore. L'essenziale e nello stesso tempo l'impossibilità di esprimerlo. Le pareti del suo studio non sarebbero state più isolanti nè avrebbe mai avuto la forza di imparare, di far poesia da quel ritmo monodico e incessante come il moto del mare, sterile per lui, concretizzato da un suono che egli percepiva come un rumore informe e incomprensibile. Sentì sulle spalle il peso della stanchezza e della vecchiaia. Capì anche che l'agonia vera e propria riguardava il suo sollievo, la sua poesia. E allora pianse, per la prima volta da quando era diventato insieme uomo e poeta, Adalberto Maria de Caesaris.


Compuscript created by  Marco Di Cicco 7 february 2001.
Last revised 19 february 2001 -Andrea Di Cicco