PROLOGO
 
 
 
 
UNA DOMENICA DELLE PALME
 
 
 
 
Antonio Di Cicco - Oltre il labirinto (1990)
All rights reserved


1

  Oltre, lo so, non posso andare ed è forse per questo che, da
qualche tempo, mi ostino solo a ritornare indietro, anche se le
vicende che ho alle spalle non riesco più a sentirle mie e mi
riduco a spiare la mia vita di soppiatto, come un osservatore
clandestino. A sconcertarmi, però, non è l'estraneità degli
episodi che rivivo, quanto la vista della continua mutazione dei
connotati che ho avuto nella vita e la dolorosa percezione
dell'incertezza della mia identità o, meglio, della pluralità dei
lineamenti che la compongono e che la fanno eterogenea e quasi
appartenente a individui diversi. Beninteso, della fragilità della
mia psiche io non mi sono reso conto solo adesso perché, al
contrario, ho imparato presto a riferirla alla velocità dei
mutamenti intervenuti nel tempo che ho vissuto,  però  non mi
sono ancora rassegnato a vedere la mia vita fatta a pezzi
dall'impatto con la Storia  del mio tempo e,  se tra le esperienze
che posso allinearmi avanti agli occhi ne cerco una che le
aggreghi tutte nell'insieme omogeneo di una storia personale, mi
accade sempre di pensare a una domenica delle palme, quando,
per la prima volta, mi ritrovai a riesumare il mio passato e ad
ammettere di essermi sperduto nel territorio stesso della mia
biografia. Tornavo a Roma da Parigi ed era il 30 Marzo del 1980.
Mia moglie Fiora aveva rifiutato di tornare a casa con me ed era
rimasta sola in Francia, con una decisione nata da motivi così
futili (aveva detto che rimaneva per riflettere) che io non avevo
potuto fare a meno di trovare patologica la sua ostinazione e,
quasi inventato dal mio soggiorno francese, mi era parso carico
di verità il detto secondo cui"les femmes ont toutes quelque
chose de cassé", nonostante la misoginia che pervade queste
parole e che mi spiaceva molto di condividere. Sull'aereo che mi
riportava a Roma io mi ero rimproverato molte volte quella
frase che tornava con insistenza a risuonarmi nella mente e, per
correggere la mia stessa immaginazione, avevo ammesso
altrettante volte che era il divario tra i diciannove anni di mia
moglie e i miei quarantadue il vero squilibrio della nostra
convivenza, però le mie riflessioni, invece di calmarmi, mi
avevano snervato e quasi disfatto, come potevo constatare
anche sull'autobus della Compagnia Aeroporti di Roma in cui,
obliterato un biglietto che non mi ricordavo dove o quando
avevo comperato, mi ero seduto dietro il conducente, appoggiato
alla spalliera di un sedile dritto e duro.
 
 

 Fuori pioveva e la corriera non filava affatto silenziosa
come una barca a vela, ma traballava scendendo rumorosa su
una città umida e lampeggiante che si presentava come una
sconfinata e impraticabile petraia. Quella visione, pur banale,
era per me così angosciosa che il sangue aveva cominciato ad
affluirmi dietro le orecchie, provocandomi dolori lancinanti alla
nuca accompagnati da un forte capogiro da paura, e, se questo
specifico malore non mi ha mai preoccupato per davvero (l'ho
provato troppo spesso quando, viaggiando in aereo, inizia
l'atterraggio con il conseguente cambio di pressione), stavolta mi
stravolgeva anche la vista, rendendo stabile il miraggio
(colorato dall'arcobaleno) che continuava a evidenziare il
disordine della città, la quale, senza centro se non impervio,
dispersa nei quartieri di epoche diverse e riunificata malamente
da duri pavimenti, mi appariva petrificata e al tempo stesso
dissipata e frenetica, come in un dopo terremoto, quando il
vento e la polvere si sono posati.  Allibito, io pensavo che, in un
ambiente così caotico ed ostile, solo un viaggiatore molto esperto
poteva giungere a un traguardo familiare e, poiché l'immagine
di una fanciulla spersa era quanto di più drammatico io riuscissi
a pensare, il rimorso di aver permesso a Fiora di rimanere a
Parigi  mi faceva soffrire, rendendo futili se non immotivate le
ragioni del nostro litigio che, cominciato  banalmente, era finito
con una separazione dolorosa ed imprevista.
 
 

  Semplicemente era successo questo, che Fiora aveva
deciso di completare la vacanza rimanendo a Parigi fino a
Pasqua,  come avevamo progettato all'inizio,  e invece io avevo
voluto rientrare a Roma in anticipo, già saziato da quella vita
oziosa, che ci vedeva insieme tutto il giorno senza sapere più
che dirci, mentre dentro mi cresceva la nostalgia del mio lavoro
e dei tempi occupati della mia giornata, dove miracolosamente
c'era posto per tutto e anche per Fiora. Il pretesto per forzare la
situazione l'avevo trovato sabato 29 Marzo, quando Fiora si era
ritirata nella nostra camera d'albergo ben oltre la mezzanotte,
comunicandomi con naturalezza di essere stata al cinema per
sentir parlare il francese e meravigliandosi molto di trovarmi
irritato. Io le avevo risposto freddamente che era appunto la
sua meraviglia la causa della mia irritazione, ma ero rimasto
immusonito solo fino a quando Fiora si era tolta la giacca,
rimanendo con le braccia e le spalle scoperte secondo il look
che predilige e che stavolta, malgrado il tempo freddo, non
avevo avuto la durezza di rimproverarle. Lei si era accorta
dell'effetto che la vista del suo corpo aveva prodotto su di me e,
per una volta, si era visibilmente compiaciuta, addirittura
gettandomi le braccia al collo per ringraziarmi del mio desiderio.
Io avevo cercato di resistere (sebbene nell'abbraccio il suo abito
si fosse scostato dal suo corpo lasciando intravedere i seni
eretti e per me sempre  eccitanti)  ma lei aveva già preso ad
incalzarmi con una furia di cui io sempre la pensavo incapace,
denudandosi molto più in fretta di me che pure ero vestito del
solo accappatoio, stringendosi già in piena dedizione e
cominciando a pregarmi, come sempre, di possederla prima che
il suo furore sbollisse e lei ne avesse orrore. Io, pur a disagio
nell'accappatoio la cui cintura aveva fatto nodo tormentandomi
un braccio dolorosamente, mi ero unito con lei senza ulteriori
indugi, in un rapporto rapido ed energico che mi aveva subito
spossato ma che non aveva soddisfatto Fiora, anche se l'avevo
vista riempirsi di rosse macchie di eccitazione sul collo e sul
petto e se l'avevo sentita abbandonarsi a un lungo fremito di
pianto.
 
 

 Come sempre, il rapporto era stato per me una prodezza
faticosa a cui mi ero sentito obbligato e, compresente con
l'innegabile piacere, ne avevo provato un doloroso rimorso
poiché, tra me adulto e Fiora ancora giovinetta, mi pareva che
l'amore dovesse essere più dolce e, comunque, senza le furie
della sua rapida disinibizione, che io sapevo episodica ed
effimera ma che sempre mi ha forzato a un certo tasso di
brutalità sessuale. E, tuttavia, non era stato il rimorso per
l'energica rapidità con cui l'avevo posseduta a spingermi verso
un astioso malumore, bensì il perdurare insostenibile di un
fremito che Fiora aveva spiegato per la prima volta, confessando
che il suo pianto non era mai la manifestazione enfatizzata di un
orgasmo (come superficialmente io avevo sempre creduto) ma,
al contrario, la spia fisica di una ritrovata delusione e quasi di
un dolore che ritornava incurabile e la teneva lontana da me
anche nel momento culminante del rapporto. Questa rivelazione
mi aveva riempito di una stizza tanto dolorosa da impedirmi di
rassicurarla con dolcezza, mentre Fiora, piangendo, mi spiegava
duramente che il mio amore non l'aveva mai portata alla
soddisfazione, perché non le aveva mai fatto ritrovare la
sensazione di serena sicurezza da lei provata da bambina,
quando, infantilmente infatuata, si abbandonava alla mano
protettrice di suo padre. Era dunque questa immagine infantile,
di Fiora a passeggio per le strade condotta per mano da suo
padre, a costituire l'insormontabile ostacolo che si frapponeva
tra di noi essendo l'inconfutabile modello della sua felicità,
sebbene, paradossalmente, fosse stato proprio l'amore per suo
padre che l'aveva spinta verso di me che di suo padre avevo in
certo modo l'aspetto e di cui per qualche tempo avevo fatto le
veci. A questo punto, tra demoralizzazione e rancore, io avevo
deciso di tornare a casa e di riprendere la mia vita solita ma
Fiora, senza più lacrime, mi aveva informato che non sarebbe
ripartita con me, anche se a me si sentiva legata non potendo
dimenticare che sono stato io a occuparmi di lei quando è
rimasta sola, senza farle pesare la sua condizione di orfanella e
senza arrivare a una relazione (e al matrimonio) se non quando
è stata lei stessa a provocarla.

 

 Ebbene, io non so come, con quella confessione tra le
lacrime, nella nostra disputa era sparita ogni gentilezza e, come
me, anche Fiora si mostrava ostinata e irremovibile, rimanendo
a letto mentre io preparavo la valigia, lasciavo vistosamente per
lei il denaro sul tavolo e uscivo senza pentimenti né parole per
recarmi all'aeroporto. Ero partito con un volo charter preso
all'ultimo momento e l'iniziale impressione di fragilità dell'aereo
mi aveva messo oscuramente così in ansia che, malgrado
l'assoluta regolarità del volo, io ero stato sempre inquieto e, al
momento dell'atterraggio, il sangue aveva cominciato ad
affluirmi dietro le orecchie con così rombante violenza da
procurarmi malessere fisico e confusione mentale. Così stordito,
mi ero ritrovato nell'atrio dell'aeroporto senza ricordarmi che
cosa avevo fatto dal momento in cui ero sceso dall'aereo e,  col
bagaglio in mano, avevo ricominciato a interessarmi dell'esterno
solo quando un gendarme in assetto di guerra mi aveva
ordinato di togliermi dal posto in cui, certo incautamente, mi
trovavo. Mi ero accorto allora, con un soprassalto di paura, che
l'aeroporto era presidiato e che i passeggeri si affrettavano
verso i propri traguardi, spingendosi in file guardinghe e
preoccupate. La suoneria del metal-detector, rivelando anche le
chiavi e le fibbie delle cinture dei calzoni, squillava in
continuazione, provocando continue corse di poliziotti armati e
rudi perquisizioni, mentre gente di ogni lingua e colore oscillava
alla rinfusa avanti e indietro a me, cui per mia fortuna, era stato
dato un permesso di uscita e, forse, di incolumità. Circolavano
sottovoce le notizie più drammatiche e le smentite più radicali,
tra chi parlava di un attentato disastroso e chi minimizzava
dicendo che non era successo proprio niente, ma tutti i
passeggeri, come me, erano indaffarati a togliersi di torno senza
danni e senza indagare su quanto era accaduto.
 

 

 Comunque, smettendo di pensare al malessere che mi
aveva tormentato sull'aereo e anche di preoccuparmi per Fiora,
io ero già completamente in guardia quando il giovanotto in
pantaloni corti mi si era avvicinato sorridendo. Nel brillìo
abbagliante della luce artificiale, che si incontrava a mezz'aria
con quella del sole apparso tra le nuvole e filtrante dalle pareti
di vetro dell'atrio, il giovanotto io lo vedevo avvicinarsi col volto
luminoso di sorrisi ma brandendo con la mano destra un oggetto
che non riuscivo a riconoscere e che mi aveva già tanto agitato
che stavo per gridare, cercando di richiamare l'attenzione della
polizia, quando finalmente il suo aggeggio si era messo a fuoco e
io mi ero accorto che quel gigantesco adolescente mi stava
offrendo un rametto di ulivo. Lui, sorridendo, mi si avvicinava
dicendo (in italiano) che mi ricordassi della domenica delle
palme e poi (in inglese) che pensassi anche alla settimana di
passione che introduce alla Pasqua, ma la sua innocenza
disarmante, pur comica (come i suoi corti pantaloni), mi aveva
commosso provocando una caduta così verticale della mia paura
che mi ero sentito subito solidale con lui e non avevo affatto
apprezzato la battuta di un mio occasionale vicino che, del resto
argutamente, gli aveva  detto di «non rompere le palme», né la
risata, del resto sgangherata, che aveva fatto una giovane donna
commentando la freddura appena udita.

 

 Allora, proprio seguendo quella donna, avevo acquistato il
mio biglietto ed ero salito su quell'autobus che, uscito dal
raccordo anulare, si era messo a percorrere rombando il fondo
di una strada dove il panorama cittadino si riduce al minimo e
dove il percorso era così segmentato dall'intrico di svolte e di
semafori che io certo non avrei potuto orizzontarmi senza guida.
Mi rendevo conto, allarmato, di vivere in un territorio
sconosciuto ma, per mia fortuna, dopo innumerevoli soste
forzose per eccesso di traffico o semafori rossi, la corriera su cui
viaggiavo seppe compiere il miracolo di fermarsi al terminal
della Stazione Termini da dove io sapevo tornare facilmente a
casa mia. Infatti, sempre guardingo ma rassicurato, con la mia
leggera valigia in mano, discesi rapidamente per la via Gioberti
fino a Santa Maria Maggiore e di qui, per la via Cavour, fino
all'incrocio con via del Cardello in cima alla quale potei entrare
nella casa dove ho sempre vissuto e che, restituendomi il
panorama noto della città, mi ha sempre procurato il piacere
indicibile del ritorno in patria. Tuttavia, appena entrato in casa,
io mi ero poco abbandonato alla gioia della contemplazione del
panorama ritrovato e molto, invece, alla voluttà di un bagno
caldo nella vasca, dove però l'amarezza per Fiora era tornata a
farsi sentire e il ricordo dei nostri bagni in comune (io così
adulto immerso nella vasca a cullare la mia regressione nel
liquido amniotico del ventre materno e Fiora, sempre
adolescente, a farsi irrorare impudicamente dal getto sensuale
della doccia) tornava a provocare ripetuti brividi erettili al mio
sesso. Anzi, il ritorno della mia sensualità mi rendeva insieme
irrequieto e pieno di speranze, tanto che, in veste da camera,
davanti alla finestra del mio studio, da dove il panorama di
tutto il centro storico di Roma compare in una sorta di veduta
aerea che tutti i miei ospiti mi invidiano, mi ero messo ad
aspettare una telefonata di Fiora o, addirittura, il suo ritorno
che, così mi sembrava, avrebbe messo fine a ogni mia
inquietudine.
 

 
 

2
 
 
 
 

 La mia attesa alla finestra, irrazionale e spasmodica con
l'orecchio al telefono, era durata fino a quando avevano bussato
davvero alla mia porta e il suono del campanello, singolarmente
simile a quello del telefono, mi aveva fatto sobbalzare. Ancora
scosso ma padrone di me, al citofono avevo parlato con un uomo
di cui mi era sfuggito il nome ma che avevo lasciato salire
abbandonandomi a oscure e minacciose premonizioni che si
erano alternativamente dissolte e riaddensate fino a quando
non avevo aperto la porta per accoglierlo. Dall'ascensore, era poi
sceso un tale, stempiato, tutto grigio di capelli e certo più
anziano di me, che però continuava a salutarmi con familiarità e
con trasparente piacere dagli occhi illuminati, del tutto
incredulo verso il mio esibito e, per molti versi, insultante non
ricordarmi di lui. Mi aveva detto di chiamarsi Diodato Caputi
(ma, per colpa mia, tutti lo conoscevano col soprannome di
Pìrito) e aveva continuato a fare precise allusioni a una nostra
amicizia giovanile di cui io mi ricordavo a malapena e i cui
particolari, considerati indimenticabili, erano così privi di
fascino da non ridurre di un palmo la distanza che avvertivo tra
noi due. Tuttavia, con un misto di rabbia e di sgomento, non solo
lo lasciavo parlare ma, iniziando a temere le ragioni della sua
venuta, mi ero messo a sollecitarlo con le mie domande,
fingendo di ascoltare con interesse i suoi discorsi su una lunga
emigrazione in Canada («un quindicennio di lutto perché la vita
da emigrante non si regge») e approvando esplicitamente la sua
decisione di tornare in patria («un rientro che è stato una
resurrezione, perché al paese si può ancora controllare la
genuinità di ogni boccone che si mangia»). Ora, appunto dal
paese, Diodato Caputi detto Pìrito, con una corsa già pagata, era
venuto a Roma col suo tassì, per portarmi mia madre che aveva
voluto rivedermi e che nessuno aveva potuto o voluto
dissuadere.

 

 Mia madre stava aspettando dentro l'automobile, sola in un
parcheggio sconosciuto, poiché aveva preferito con testarda
ostinazione prepararmi all'incontro, mandando avanti l'amico
dell'infanzia a darmi la notizia del suo arrivo.  Pìrito (finalmente
lo capivo) aveva agito con encomiabile prudenza, quasi
consapevole delle mie esitazioni dopo i venticinque anni di
lontananza dal momento in cui, diciassettenne, io ero uscito
dalla casa materna senza farvi più ritorno, ma i nostri giri di
parole, ora, mi facevano avvampare di vergogna e, troncando gli
indugi, lo avevo rispedito a prenderla mentre io badavo a
rivestirmi.  Rabbrividendo, mi rendevo conto che mia madre mi
faceva paura perché disseppelliva il mio passato e che le mie
esitazioni, oscure ma tenaci, si opponevano proprio a questo,
chiarendosi in pensieri odiosi ma formulati per esteso, con i
quali io mi ricordavo che meglio di tutto sarebbe stato se io non
avessi litigato con Fiora rimanendo a Parigi ma che, almeno, se
ora mi fossi negato a Pìrito, forse lui si sarebbe riportato
indietro mia madre e io avrei evitato l'incontro e la mia vita non
sarebbe cambiata.

 

      Pìrito, invece, aveva suonato di nuovo alla mia porta
facendo strada a una vecchietta malsicura sulle gambe rigide, la
schiena curva e il corpo minuto, la quale, con le braccia in alto,
andava ripetendo «Nino, figlio mio», dimostrandomi estatica una
completa dedizione e un immutato amore. Io ero rimasto
stupefatto perché mia madre me la ricordavo alta e diritta, la
faccia ovale sotto la massa di capelli tirati dalla treccia avvolta
in crocchia sulla nuca, il corpo altero e noncurante di chi sa di
essere oggetto di passioni, mentre io bambino la seguivo per
mano e solo in sua compagnia mi affacciavo senza timore al
balcone di casa nostra e alla sua ringhiera tremolante. Ogni sera,
nella valle guardavo prima a sinistra, dove tra i muretti a secco
innumerevoli pietre si spogliavano senza che più nessuno le
ammucchiasse maledicendo, e poi a destra, oltre il Lago Lucciola,
dove in un mare di erba medica, silenziosa come una  barca a
vela, scorreva la  piccola corriera azzurra su cui un giorno sarei
partito per prendere il mio posto nella vita.  Rientrati in casa, io
mi divertivo a ripetere indovinelli di cui non capivo bene il
senso (come, ad esempio, «giovedì andai a caccia e presi una
beccaccia, venerdì mela mangiai, peccai o non peccai?»), mentre
mia madre mi ascoltava ridendo e intanto mi spogliava per
mettermi nel letto dove mi raggiungeva subito dopo essersi
sciolta la treccia. I suoi capelli erano neri come un tizzone
spento nell'acqua e le sopracciglia formavano due archi scuri
sopra gli occhi lampeggianti mentre io mi aspettavo che, entrata
nel letto, mi prendesse tra le braccia e che, con questo gesto, mi
rassicurasse fino in fondo facendomi cadere addormentato
accanto a lei stupenda di bellezza e di profumo incantato. Ma
quella vecchierella di quaranta chili, che mi veniva incontro
barcollando e che io ero costretto quasi a inginocchiarmi per
abbracciare, non rassomigliava in niente a quella mia unica e
vera madre, sebbene dovessi arrendermi all'evidenza e
ammettere, con acuto rimorso, che anche il mio ricordo
straordinario altro non era se non la mia estrema tentazione di
non riconoscerla.

 

 Stancata dal viaggio, mia madre si era già seduta su una
poltrona del salotto, in cui quasi scompariva occupandone una
parte minima, e io ero così imbarazzato da desiderare la
presenza di Pìrito che invece si stava congedando, molto meno
laconico con lei di quanto ormai fosse con me. Ero perciò rimasto
faccia a faccia con mia madre, nel mio salotto elegante, dalla cui
finestra si vede il panorama che importa della città in cui vivo,
in un palazzo d'epoca molto ben restaurato dove io sono
approdato con un po' di fortuna ma insieme con i traguardi
essenziali che volevo raggiungere (voglio dire coscienza
consapevole e benessere economico, non ereditato quest'ultimo
come la casa, ma conquistato in modo pulito, senza sfruttare
altri uomini bensì con la composizione di libere opere d'ingegno
che, alle altre remunerazioni, hanno aggiunto quella del denaro).
Per arrivare a tanto io avevo molto lavorato, avevo sofferto ed
ero stato felice, ma gli anni che erano stati necessari per
produrre il risultato avevano scavato una distanza incolmabile
tra chi ero diventato e chi ero stato quando, adolescente, vivevo
in casa con mia madre la quale, invece, era venuta in cerca
proprio di quell'altro figlio portandosi dietro quella mia vecchia
identità senza rendersi conto di come anche lei era cambiata e
di quanto eravamo diventati estranei l'uno all'altra.

 

 Semisdraiata sulla poltrona, mia madre mi guardava senza
parlare, limitandosi a consegnarmi, dopo averle tirate fuori dalla
borsa che si portava stretta al petto, certe carte che, già al primo
sguardo, risultavano essere la cartella clinica che le avevano
fatto all'ospedale di Sulmona dove era stata ricoverata per due
mesi. Io i documenti li avevo guardati con attenzione, cercando
di dissimulare le mie crescenti preoccupazioni man mano che
procedevo nella lettura perché in quelle carte, mentre lei mi
osservava fissa e fiduciosa, io trovavo scritto che i sanitari di
quell'ospedale avevano accertato una neoplasia ai polmoni del
tutto incurabile in quanto metastatica di altra formazione
cancerosa che non si era potuto o saputo accertare. Il primario
del reparto, in una sua nota conclusiva, sconsigliava sia un
intervento chirurgico, giudicato distruttivo, sia un ulteriore
ricovero in ospedale, giudicato inutile e traumatico, e per questi
motivi l'aveva dimessa e rimandata a casa, ordinando di
continuare una blanda terapia di cure innocue e insieme inutili.
Seduta davanti a me, mia madre aveva seguito con gli occhi la
mia lettura, attenta alle tappe progressive della mia
comprensione e io, ben presto, mi ero accorto che non avevo
bisogno di dissimulare la mia pena perché lei conosceva il
contenuto delle carte, anche se ugualmente aveva conservato in
fondo agli occhi un'espressione ironica e furbesca. «Lui crede di
avermi seppellito», mi aveva detto, alludendo al primario di
Sulmona, mentre io leggevo l'ultimo foglio della sua cartella,
«ma non lo sa che io a Roma ho un figlio». «No, che non lo sa»,
avevo risposto prontamente, guardandola negli occhi e
sorprendendomi a darle ragione senza sapere io stesso se volevo
illuderla o se mi stavo già impegnando nel tentativo di smentire
quel primario. Mi ero accorto, però, che tra me e lei si era già
creata una complicità uguale e rovesciata rispetto a quella che
c'era tra di noi quando io ero bambino e, pur di rassicurarla, io
avrei continuato a lungo così se mia madre non fosse stata
esausta, come al compimento di un faticoso dovere. «Noi
dobbiamo parlare, ma lo faremo dopo», mi aveva detto
chiedendo di riposare, subito, senza altra cena oltre quella che
diceva di avere consumato durante il viaggio con Diodato.
 
 

 Per dormire, aveva voluto stendersi sul mio letto e io mi
ero commosso nel vederla così poco rilevata sotto le coperte, ma
lei, non capendo le ragioni della mia commozione, mi aveva
fatto cenno che nel letto c'era posto anche per me, assopendosi
quasi subito, mentre io non potevo non pensare alle notti
passate insieme ed ero rimasto lungamente a guardarla
dormire, turbato dalla vista del suo corpo così rimpiccolito dalla
vita (o dalla morte). Non avevo osato sdraiarmi sul letto accanto
a lei e stavo tentando di riposare sulla poltrona ma mia madre
me lo impediva senza volerlo, svegliandosi ogni pochi minuti,
chiamandomi con i nomignoli dimenticati della mia infanzia e
rassicurandosi solo quando mi vedeva chino su di lei. Negli
intervalli di veglia faceva discorsi non sempre intelleggibili che
mi sembravano sconnessi e forse non lo erano, tornando
oscuramente a dichiararsi solidale con me contro Nunziatina,
ma anche ad accennare alla sventura di questa donna e a
stornarne da me la responsabilità, forse senza esserne del tutto
convinta. Io, esterrefatto, sentivo che avrei dovuto cercare di
capire ciò che stava dicendo perché era per parlarmi di questo
che lei era venuta a cercarmi dopo tanto tempo, ma, distratto e
preoccupato dal suo farfugliare, non riuscivo a ricevere il
messaggio e le sue parole quasi subito avevo preferito
interpretarle come una forma innocente di delirio.
 
 

 Non potevo però evitare di supporre che, nel cervello di
mia madre, in una sorta di sospensione o fuoriuscita dal tempo,
un mio dimenticato rapporto con Nunziatina, confuso per me tra
i mille altri che ho avuto, potesse essere rimasto come il segno
di un vero e proprio matrimonio, senza cerimonia o testimoni
ma altrettanto valido e solenne per la promessa e il contatto
carnale dei due sposi. Io sapevo che lei così aveva fatto con mio
padre e addirittura in forma più contorta perché mio padre era
sposato con un'altra, ma  queste sue convinzioni anacronistiche,
per di più balbettate con faccia spiritata, mi sembravano i
sintomi mortali della sua malattia che, in effetti, si era
repentinamente aggravata, come se la ricerca di me, da lei
sentita come il solo talismano che le avrebbe ridonato la salute,
fosse stata invece solo il suo precipitare nella morte (e il
potermi rivedere, il solo mezzo di trovare il coraggio di morire).
L'orrore di queste mie riflessioni mi aveva tanto invaso l'anima
da costringermi a svegliarmi, facendomi ammettere che,
dunque, in qualche modo le avevo sognate ma il mio risveglio,
come obbedendo a un altro richiamo, mi permetteva di vedere
che mia madre era caduta dal letto e che era rimasta chissà
quanto tempo stesa sul pavimento a chiamarmi flebilmente.
 
 

 Insomma, pur stando nella stessa stanza e per di più con la
presunzione di vegliare un'ammalata, io non solo non l'avevo
sentita cadere ma provavo adesso una forte ripugnanza a
prenderla nelle braccia per rimetterla a letto e solo i miei
rimorsi mi avevano fatto superare le mie remore. Avevo stretto
allora a me, per contrasto, quel suo corpo di ossuta bambina
nonostante la sentissi bagnata e, anzi, mentre mia madre mi
accarezzava la testa senza nessuna umiliazione, io l'avevo
spogliata e cambiata, arrivando a sistemare una fascia di ovatta
tra le sue gambe perché non si bagnasse di nuovo (non senza
dare una rabbrividita occhiata al piccolo sesso che mi aveva
generato). Con la giacca di un mio pigiama avevo rivestito
interamente il suo corpo rugoso e quasi incartapecorito dall'età,
sebbene, a fare i conti, mia madre avesse appena settanta anni,
e la rovina del suo fisico mi aveva tanto impressionato che mi
era parso di avere avanti agli occhi una vecchia di altri tempi,
sopravvissuta alla sua civiltà ma che io, all'improvviso, volevo
che continuasse a vivere perché, all'improvviso, le ragioni della
mia vita si erano tutte dissolte e la cosa più nobile e pulita che
potevo fare mi sembrava proprio quella di custodire con amore
e reverenza la mia vecchia madre ritrovata. Mi distraevo un
attimo a immaginare tutte le obiezioni di Fiora ma solo per
rimuoverle (e per constatare in me la dura, inconvincibile
decisione di imporre il mio punto di vista), mentre per questo
amore per mia madre, che ritornava da così lontano mi si
inumidivano gli occhi dopo tanto tempo, in una commozione che
rendeva pastoso l'azzurro che avvolge la terra quando è ancora
notte ma sta per nascere il giorno.
 
 

 La mite luminescenza che penetrava dalla finestra (era di
nuovo l'ora che precede l'alba) spesso mi svegliava da bambino
e io mi rassicuravo solo a vedere il grande corpo di mia madre,
ora diventato così piccolo, e a sentire la sua voce sonora, adesso
così flebile. «Dove è andato tuo padre?», mi stava chiedendo,
stanca ma con fermezza, e la serietà dell'interrogativo mi
lasciava di stucco perché mio padre era sempre stato assente
dalla nostra vita in comune. Io, perciò, ero così interdetto da non
sapere che rispondere ma lei, contrariamente a quanto avevo
sperato, mi incalzava con lo sguardo costringendomi al
miserabile espediente di risponderle riformulando la domanda.
«Perché», le avevo detto, «non l'hai visto?». «Mah», rispose mia
madre caduta nel tranello, «stava qui con me, mi doveva
portare al palazzo» e io, allora, per farmi perdonare di essere
entrato di soppiatto tra i suoi pensieri più intimi, avevo preso
le sue mani tra le mie e le avevo trovate inerti, pesantissime
nella loro fragile apparenza (mi davano la misura di una
incolmabile distanza). «Ho sentito un canto di quaglie», diceva
intanto lei, ancora sillabando distintamente, «quàcquaquà,
quàcquaquà», ma un momento dopo, quando l'alba aveva
cambiato i colori della casa, mia madre era già entrata in coma,
stringendo i pugni al petto e non rispondendo più ad alcuna
sollecitazione. Io, dopo un attimo di sorpresa dolorosa, mentre
attendevo il medico chiamato per telefono, non potevo più
negare di sentirmi totalmente smarrito e anche la mia casa era
solo la tana del mio smarrimento, dove io non sapevo né come
né perché ero arrivato e dove ugualmente mi sarei perduto se
dentro le mie orecchie, come si dice dentro le conchiglie, non
avesse continuato a rombare la memoria confusa del passato.
Anzi, all'improvviso, gli itinerari che avevo già percorso mi
sembravano le sole piste da seguire per uscire dal mio
vagabondaggio senza meta (e anche dal lutto che mi suggeriva
la vista del corpo di mia madre), sebbene nella mia vita io
avessi sempre fatto il contrario, rinnegando il passato
ogniqualvolta nuovi desideri dissolvevano le mie scelte
pregresse o i vincoli che imprigionavano la mia identità,
impedendomi di evolvermi e cambiare. Nel mio interno, come
tra le nebbie, ricominciavano a fermentare gli episodi mai morti
dell'infanzia e, come in quel momento rinasceva il panorama
della città al primo sorgere del sole, così stava rinascendo,
illimpidendosi alla mia vista interna, la vita che ho fatto con mia
madre nel paese dove sono nato.
 
 


Last revised 27 April 1999  - Andrea Di Cicco