Parte prima
 
 
 
 
LE IMPRESE DELL'INFANZIA
 
 
 
 
Antonio Di Cicco - Oltre il labirinto (1990)
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1
 
 

 Nascere, sono nato il tre agosto del 1938, in pieno segno
del Leone, a Tricastro, un paese arrampicato sui tre colli di una
tortuosa valle di montagna separata in due parti dal fiume
Sagittario che, di quando in quando, si allarga a formare un
piccolo lago rotondo ma che, se rende fertile una costa gialla e
verde di erba medica e grano, lascia stenta ed arida l'altra costa,
tutta distinta dalle geometrie dei muretti a secco fatti con le
innumerevoli pietre sempre affioranti dalla poca terra. Sui tre
colli disposti in fila, e perciò rispettivamente chiamati Primo
Colle, Colle Maggiore e Colle Ultimo, sorgono tre distinti gruppi
di case e baracche  attorno alle tre costruzioni più antiche e più
grandi, i cui proprietari, insieme con l'Arciprete, posseggono
quasi tutta la campagna circostante  e, comunque, tutta la costa
fertile. In una di queste tre costruzioni più antiche, la prima
per chi arriva a Tricastro per la via provinciale, mia madre,
Tilde Lupi, mi partorì senza un gemito, alle sei del mattino,
assistita da suo padre Teodolindo e dalla levatrice del
circondario, nota a tutti col nome di Bambina. A dire di
quest'ultima, che in seguito io ho conosciuta grassa e baffuta, il
parto di Tilde fu miracolosamente naturale e quasi indolore,
come d'altronde lasciava presagire l'estiva notte del travaglio,
che fu piena di indizi e di segnali portentosi. Tutti, infatti,
poterono notare che, quella notte, una stella cambiò posto
attirando ogni sguardo e illuminando la valle invece della luna
che doveva sorgere e non era sorta (se ne dedusse, tra l'altro,
poiché la luna è femmina, che sarei nato maschio), e tutti
seppero, la mattina dopo, che la cagna vergine dell'arciprete
aveva partorito tredici cuccioli bianchi e neri, tutti maschi e uno
più bello dell'altro. Nessuno però seppe, all'infuori di noi di
famiglia, che mia madre aveva avuto la prima doglia proprio
quando la stella cambiò posto aumentando la sua luce e che
aspettò in silenzio, senza confessare neppure a se stessa che il
parto era cominciato, fino alle tre del mattino quando, come ogni
notte, suo padre si alzava per andare ad accudire le sue bestie.
Teodolindo non ebbe esitazioni e uscì di casa mentre ancora
finiva di vestirsi, elencando ad alta voce le ragioni per cui
trascurava gli animali, e rientrò appena un quarto d'ora dopo in
compagnia di Bambina, che aveva trovato sveglia e già pronta
perché anche lei si aspettava novità, avendo fatto un sogno che
le preannunciava la chiamata e che, svegliandola, le aveva
permesso di vedere la stella che cambiava posto.
 
 

 Appena entrata, Bambina constatò in mia madre  una
dilatazione già notevole e previde un'attesa di tre ore, durante
le quali non solo Tilde non fece un lamento ma si associò spesso
all'allegria di Bambina che faceva risuonare di continue risate la
casa del Primo Colle ai pesanti apprezzamenti che il vedovo
Teodolindo rivolgeva alle sue  grazie. Nel frattempo, mio nonno
aveva ravvivato il fuoco, riempito d'acqua l'annerito paiolo
appeso alla catena del camino e, rifatta la brace, aveva
cominciato a tostare un esatto pugnello di caffè  preso dentro a
un sacchetto di stoffa gelosamente custodito dentro un vaso di
vetro. I grani del caffè mio nonno li aveva sparsi sul fondo
forato di una padella che gli avevano venduto per arrostirvi
castagne che non maturano a Tricastro, ma lui l'aveva
comperata senza svilirla né contrattare sul prezzo, avendo
trovato lo strumento che gli serviva e, da allora, l'adoperava
solo per quella tostatura notturna. La preparazione era laboriosa
ma, con i suoi gesti lenti e i suoi tempi lunghi, Teodolindo aveva
acquietato l'agitazione della figlia, spargendo intorno la sua
calma insieme con l'aroma del caffè che ormai si era tostato al
punto giusto e che mio nonno si era messo lentamente a
macinare. Intanto, come se tutto fosse stato calcolato con
esattezza, l'acqua del paiolo aveva cominciato a bollire proprio
nel momento in cui si poteva preparare la caffettiera e, mentre
si aspettava che il caffè gocciasse,  nonno Teodolindo trovò il
modo di comunicare a Bambina (e, attraverso lei, a tutta la
comunità di  Tricastro) la notizia che era stata Tilde a rompere
unilateralmente il fidanzamento con Francesco Bellafronte, il
quale, è vero, si era rifiutato di entrare senza beni nella casa
fornita del Primo Colle e aveva preferito emigrare in cerca di
fortuna, però era stata Tilde a liberarlo dall'impegno della
parola data, avendo deciso di non aspettare il suo ritorno.
 
 

 Questa ricostruzione di mio nonno, più che inesatta, era
volutamente fantasiosa perché, se mia madre non era arrivata
nubile a trent'anni per mancanza di occasioni ma per aver
mostrato una crescente disistima nei confronti dei maschi in
generale, era incontestabile il fatto che Francesco Bellafronte era
emigrato solo quattro mesi prima della mia nascita e tutti
sapevano che lo aveva fatto perché non era il padre del
bambino che sarebbe nato alla donna con cui era fidanzato. Di
tutto questo mio nonno non si era curato minimamente e aveva
invece a lungo lamentato la solitudine di Tilde che a lui,
Teodolindo, era parsa così intollerabile che aveva finito per
pensare a un bambino come a chi avrebbe fatto rifiorire la casa
e riportato il sorriso negli occhi di sua figlia. Per questo, la
creatura che stava per nascere non aveva proprio padre (e
sarebbe stata sempre e soltanto il figlio di Tilde o, in subordine,
il nipote di Teodolindo), anche se, naturalmente, Tilde  aveva
conosciuto l'abbraccio di un maschio che però, affatturato dal
vino, non si ricordava di quel rapporto carnale se non come di
un sogno. Allo stesso modo, Bambina, nei suoi resoconti
posteriori ascoltati anche da me, ometteva anche lei tutti i
particolari che rendevano incredibile il racconto di mio nonno,
ma li ometteva per dimenticanza reale e non per qualche calcolo
perché quel diavolo di Teodolindo, proprio al momento giusto,
aveva avuto l'accortezza di distrarla servendo il suo caffè, così
caldo, carico e profumato che la levatrice, mugolando per
l'ammirazione, aveva ammesso di non avere mai assaggiato
niente di simile in tutta la sua vita. D'altra parte, quel caffè agì
come una pozione magica anche su mia madre che, recuperate le
forze, si era ormai decisa al parto sdraiandosi sulla cassapanca
vicino al fuoco del camino e, pur in presenza di suo padre, aveva
assunto con naturalezza la posizione della partoriente.
 
 

 Alle sei in punto del mattino, fu così proprio mio nonno
che  mi raccolse dalle mani di Bambina e per primo mi mostrò a
mia madre, esponendo davanti a lei il mio sesso di maschio,
prima di appoggiarmi delicatamente sul suo petto perché io ne
sentissi il cuore e, appena nato, calmassi subito il mio pianto e
mi rassicurassi al suono di quel battito già noto. Poi, a cose fatte,
quando alle otto del mattino Bambina era tornata a casa sua e io
dormivo placido nel letto accanto a mia madre, mio nonno  era
sceso nella stalla a governare le bestie che, altro miracolo di
quella notte prodigiosa, lo avevano atteso mansuete per  cinque
ore  e che accolsero la notizia della mia venuta al mondo
partecipando anche loro alla letizia della casa. Qualche giorno
dopo, quando mia madre si rimise in piedi, poté personalmente
constatare che tutta Tricastro aveva accolto con naturalezza la
sua maternità senza matrimonio e non per rispetto a
Teodolindo, come pure si vide a Ferragosto nella festa che mio
nonno fece per il mio battesimo, ma proprio per solidarietà nei
confronti di lei che si era data la consolazione di avere un figlio
per la casa nel momento in cui si condannava a una giovinezza
senza amore. D'altronde, il mutamento nella casa di Teodolindo
avvenne in modo quasi impercettibile perché, subito dopo
Ferragosto, l'estate si ruppe e il maltempo portò a un inverno
così precoce e lungo che per quasi nove mesi mi tenne chiuso in
casa e, al ritorno della buona stagione, nessuno più a Tricastro si
chiedeva chi potesse essere il padre del bambino che muoveva i
primi passi davanti alla porta della casa del Primo Colle.
 
 
 
 
 

2
 
 
 
 

 Del periodo che seguì, ossia di tutta la mia prima infanzia,
io ricordo solo mia madre, alta e bruna, sempre comprensiva ma
inflessibile nella sua presenza, e, dopo di lei, mio nonno
Teodolindo con cui ogni giorno scendevo in quel vero luogo delle
meraviglie che era la sua stalla-bottega. Con loro, mi ricordo  la
casa, enorme e protettiva come una fortezza, sebbene, dei tre
castelli di Tricastro, quello di mio nonno, di gran lunga il
secondo per importanza, sia situato su un colle così lene che non
si capisce quale fortificazione naturale  abbia  potuto mai
costituire, come  invece  è chiaro del Colle Maggiore per il
palazzo dei Baroni che sono i veri signori del luogo, o anche del
Colle Ultimo per il castelletto di Matto Sinni, che da una parte
strapiomba sul burrone e, dall'altra, sovrasta le baracche a quei
tempi piene di bambini. Per chi viene a Tricastro dalla via
provinciale, la casa di mio nonno addirittura appare come una
bassa costruzione quadrata  col solo piano terra,  le finestre di
un solido verde e un portone più pesante della pietra, ma sul
retro si può contare su un dislivello di sei metri che, se è tutta
l'altezza del Primo Colle, concede alla casa un mezzanino di due
metri d'altezza, a metà fondaco di provviste per noi e a metà
deposito di fieno per gli animali, e in fondo l'alta stalla-bottega,
con a destra i due banchi da falegname e il pannello degli arnesi
e, a sinistra la lunga mangiatoia e le stie della stalla che apre la
sua porta sui campi della costa fertile e sulla via del lavoro per
le bestie.
 
 

 Tuttavia, della mia vita iniziale in casa di mio nonno io
non ricordo episodi specifici e le poche scene quasi fotografiche,
che mi vedono protagonista con mia madre e le sue cure o con
mio nonno e i suoi animali,  non mi riesce di datarle con
precisione legandole a una specifica esperienza perché esse
accompagnano tutta la mia prima infanzia e possono
appartenere a ciascuno dei miei primi anni di vita. Invece, il
primo episodio che posso situare in una data precisa non
appartiene all'ambito della mia famiglia e rappresenta, per così
dire, il mio primo sguardo consapevole sul mondo esterno.
L'episodio è del 1942, quando io avevo appena compiuto
quattro anni, e avvenne il giorno 22 agosto, quando a Tricastro
si celebra la festa di San Domenico eremita che io ho sempre
preferito a quella per il mio compleanno, per le possibilità che
mi offriva di confondermi con gli altri bambini del paese. San
Domenico, di norma, regala agli abitanti di Tricastro un
supplemento di bel tempo per la loro breve estate e appunto in
uno sfolgorìo di sole la festa incominciò con l'apparizione
misteriosa dei pannoccini che salivano al paese con le scarpe in
mano, cenciosi  ma solenni e scortati dalla banda musicale che si
era mossa fino alle Fonticelle per accoglierli e accompagnarli
alla  chiesa grande. Qui si concludeva quel pellegrinaggio in
onore del nostro santo protettore dal morso delle serpi e qui, tra
due ali di folla,  dalla porta fino all'altare maggiore, dove da
giorni  era stata esposta la statua nera e gigantesca di San
Domenico, molti pannoccini percorrevano tutta intera la distanza
strofinando la lingua sul pavimento, fino a riempirla di ferite e
addirittura a consumarla per punirla delle parole delittuose che
aveva pronunciate  (e, se non so dire la sensazione di orrore
stupefatto che, bambino,  provavo a questa scena, io certo i
pannoccini li ammiravo,  mi toglievo le scarpe per camminare
scalzo con loro e anche per il voto della lingua, che non avrei
mai osato imitare, li ho stimati impaurito per molti anni prima
di arrivare a disprezzare il loro fanatismo).
 
 

 Quella scena, però, si ripeteva ogni anno e i pannoccini che
strisciano in chiesa con la lingua per terra non sono venuti a
Tricastro solo nel 1942, però io sono sicuro che in questo anno, a
cominciare da subito dopo  il mezzogiorno di un ventidue agosto
sfolgorante di sole, l'arrivo dei pannoccini (e il compimento del
loro voto di camminare con la lingua per terra) fu seguito da
una inusuale processione fino al Colle Maggiore e fino dentro il
palazzo dei Baroni. Questa appendice era in quell'anno
necessaria perché nella cappella di famiglia dei Baroni si doveva
consacrare una nuova statua del Cristo rappresentato come
Sacro Cuore e, fin dal  mezzogiorno, era stato organizzato un
servizio di vedette che doveva dare a Bruno Baroni la notizia
dell'avvenuto avvistamento del camion che trasportava la
statua. Nella vasta corte del castello c'era una grande
animazione e la gente si assiepava intorno alle tavole imbandite
del rinfresco, anche se nessuno ancora osava toccare il cibo o il
vino copiosamente esposti e che nessuno controllava. Che nella
corte ci fossero i pannoccini, e che dunque fosse il ventidue
agosto 1942, è sicuro perché fu uno di essi che si rivolse a me (e
io appunto di questo mi ricordo), invitandomi ad assaggiare una
ciambella mentre io lo osservavo per vedere se aveva ancora la
lingua e lui invece, con l'acquolina in bocca e anzi con un vero
getto di saliva, si meravigliava che io non provassi alcuna voglia
di mangiare davanti a tutta quella grazia di Dio. L'insistenza del
pannoccino era stata così disturbante che chi mi accompagnava
(non ricordo chi fosse) mi aveva fatto allontanare infastidito, ma
questo particolare  mi riporta alla memoria che né mia madre
né mio nonno erano voluti venire dai Baroni, mentre io ci ero
voluto andare perché ci andavano tutti e per la prima volta mi
ero meravigliato che i miei non volessero partecipare a una
cerimonia religiosa, anche se mia madre, a differenza di mio
nonno, era tanto devota da aver riconquistato l'arciprete dopo il
suo parto senza nozze e da guidare, pur così giovane, il rosario
dei tridui e delle novene ricorrenti, con tutte le altre donne di
Tricastro in compunta ammirazione della sua dizione chiara e
pia. Loro, anzi, non avrebbero mandato neanche me se io non
avessi insistito con molta determinazione, dicendo che proprio
non capivo perché noi non potevamo andare dove andavano
tutti e dove, di tutta Tricastro,  saremmo mancati solo noi.
 
 

 Vincitore, io dunque ero andato al palazzo dei Baroni (non
mi ricordo accompagnato da chi)  ed era già il tramonto quando,
trafelata, la prima staffetta giunse ad annunciare tra gli
applausi che il camion con la statua era stato visto al Ponte
Grosso. Allora Bruno Baroni fece accendere i lampioni della
corte, tutte le luci della Cappella e pure le lampade colorate
messe per l'occasione, sebbene ci si vedesse ancora alla luce
naturale e il cielo fosse ancora lucido come il cristallo. Quando si
seppe che il camion era giunto alle Fonticelle, la notizia risultò
subito invecchiata perché il camion lo vedemmo passare davanti
alla casa di mio nonno e vedemmo anche la sagoma cubica
dell'imballo che conteneva la statua sul pianale, nonché le funi
che ne fissavano la stabilità. Le donne e i pannoccini fecero
appena in tempo ad accendere i lumìni che il camion già entrava
a passo d'uomo tra la folla nella corte e la banda musicale
intonava il suo inno e l'arciprete dava inizio alla preghiera
cantata, subito ripetuta dall'eco insistente delle donne. Quando il
camion, fatta la manovra, fu fermo e il conducente fu balzato
dalla cabina per parlare con  Bruno Baroni, allora tutto, canti
suoni e rumori, cessò all'improvviso e si fece il silenzio in mezzo
a tutta quella luce. Fu a questo punto che anch'io vidi Magìa, la
seconda moglie di Bruno Baroni, sorella della prima che si
chiamava Argìa e che mi affascinava per il nome e per le voci
paurose che vi erano connesse, poiché di lei non solo si diceva
che, morta la sorella, avesse usato filtri ed arti magiche per farsi
sposare dal ricco cognato, ma anche che sua sorella Argìa non
fosse morta di morte naturale ma fosse stata Magìa a far in
modo che morisse per poterne prendere il posto. A me, invece,
Magìa fece un'impressione stupenda, vestita di bianco fino ai
piedi, con un velo nero e trasparente sulla testa e sulle spalle,
più alta e più bella di mia madre e con un'espressione così
delicata ed innocente che davvero mi parve un'apparizione
creata da tutta quella luce che splendeva nella corte. Magìa
barcollava per l'emozione ma a sorreggerla non era il marito,
che si limitò ad ordinare che portassero una sedia, bensì una
cenciosa vecchia dei pannoccini che Magìa non respingeva
mentre invece respinse la sedia del marito rimanendo in piedi.
Sotto lo sguardo lucido di lei che traforava il velo nero, il
conducente del camion parlò con  Bruno Baroni senza che si
potesse capire ciò che disse malgrado il perfetto silenzio
circostante. L'uomo, infatti, si espresse balbettando in un
dialetto incomprensibile, ma fu ugualmente chiaro a tutti che
chiedeva di essere aiutato a sballare e a scaricare la statua,
perché era evidente che da solo non ce la poteva fare.
 
 

 Annuendo, Bruno Baroni si rivolse con un semplice cenno
a Uliano, il falegname che tutti in paese chiamavano Lenìn e che
io conoscevo perché veniva spesso nella bottega di mio nonno a
lavorare e qualche volta a bere (l'ubriachezza gli scioglieva   la
lingua,  spingendolo   a dichiararsi  comunista e a ripetere torvo,
«Lenìn vi manda ai lavori forzati». Altre volte invece diventava
cialtrone e, tra gli  altri,  cantava un motivo, «cara Tilde mia /
paghi mezzo litro / a Uliano tuo»,  che mandava in bestia mia
madre per la sfrontata familiarità che vi sentiva e che lei non
aveva mai autorizzato). Al cenno di Bruno Baroni, Uliano rispose
subito, sobrio e silenzioso, e salì con il conducente sul pianale
del camion cominciando con martello e cacciavite a schiodare
l'armatura che proteggeva la statua. Dentro le stecche della
gabbia, c'era un soffice involucro di trucioli di legno che i due
toglievano cautamente cominciando dall'alto, in modo che per
prima apparve la testa ovale del Cristo  (i grandi occhi tristi,  la
barba a doppio pizzo sul mento e i baffi sulla bocca chiusa). Quel
volto, brillante tra i capelli lunghi sulle due guance colorite, era
così affascinante che a me parve la vera immagine della bellezza
più che quella della divinità, ma pur emozionato e stupefatto, io
fui attirato come da una calamita dagli occhi di Magìa che aveva
fatto un passo avanti e si era bloccata in un atteggiamento
estatico a contemplare la statua che appariva. Intanto era stato
scoperto il torace, ricoperto da una tunica azzurra a grandi
pieghe e da un mantello scuro che scendeva dalle spalle ma
lasciava scoperto in mezzo al petto il grande cuore rosso
contornato dai raggi d'oro che il Cristo sorreggeva e al tempo
stesso mostrava con la mano sinistra lunga e pallida, sul cui
dorso era visibile il nero foro del chiodo della croce. Il braccio
destro della statua, sollevato lateralmente, era ancora nascosto
dalla intelaiatura e dai trucioli che lo proteggevano e, quando
anche questo ultimo diaframma cadde e il conducente del
camion (o forse Uliano) lo liberò dagli ultimi trucioli, allora il
braccio apparve privo della mano. Io,  ancora prima di vederla,
capii che c'era la mutilazione  al grido straziato di Magìa che,
impallidendo, cadde subito svenuta ma che, appena caduta a
terra, subito rinvenne risollevandosi agile e terribile a gridare la
sua maledizione a suo marito che aveva permesso a un senza
Dio  come Lenìn di fare un lavoro che non doveva fare.
 
 

 La sua faccia si era fatta  davvero impressionante quando,
sollevato il velo, impietrita e bianca nei tratti e pazza nello
sguardo, Magìa escluse freddamente che quella statua potesse
essere accolta nella sua cappella, ritirandosi in casa subito
seguita dal marito, senza che nella corte nessuno più sapesse
che cosa si doveva fare. La gente, infatti, cominciò a muoversi
verso l'uscita per non essere coinvolta in nessuna decisione,
mentre il cibo rimaneva intatto sulle tavole e il conducente del
camion, più a gesti che con la sua lingua incomprensibile,
andava ripetendo che non era colpa di nessuno e che la mano,
ritrovata tra i trucioli perfettamente sana, poteva essere
facilmente riattaccata. Andai via anche io, trascinato a forza da
chi mi accompagnava, senza vedere niente e nessuno, se non
Uliano che, muto e inebetito, era rimasto in una posa allucinata
sul pianale del camion diventando la  caricatura involontaria
della statua di cui stava a fianco. Certo, i risvolti di questo
episodio  io me li ricordo bene perché sono connessi con altri
fatti della mia vita a Tricastro, però l'apparizione del braccio
senza mano del Cristo, il grido folle di Magìa e la fulminata
immobilità di Uliano mi ammutolirono per ore e poi, per anni,
mi assediarono la mente ispirandomi un terrore che ogni sera
mi spingeva a pregare per la salvezza della mia anima, per
quella di mia madre, per quella (secondo me colpevole) di
Uliano e soprattutto per quella di mio nonno che su queste cose
rideva e le tacciava di superstizione.
 
 
 
 

3
 
 

 

 Sei mesi dopo, nel palazzo dei Baroni, la disgrazia si ripeté
e Magìa, che più volte aveva tentato di sconciarsi, partorì,
rischiando la vita, un  figlio maschio di quattro chili, sano e già
folto di capelli, con gli occhi azzurri e l'espressione placida ma
privo della mano destra. Di colpo, su Colle Maggiore scese  un
silenzio che durò fino al giorno del battesimo, tre settimane
dopo, quando al bambino fu imposto il nome di Giovanni e a
palazzo Baroni furono aperte le sale da ricevimento rimaste
chiuse dai tempi festosi del nonno di Bruno Baroni (che si
chiamava Bruno anche lui e che era morto ammazzato). Sotto la
luce di enormi lampadari sfavillanti, la festa riuscì magnifica
malgrado la consapevolezza della disgrazia, con dolci e bevande
a sfascio sulle tavole lussuosamente apparecchiate e con un
complimento personale per ciascuna famiglia di Tricastro. Nella
animazione della festa, nessuno fece caso all'assenza di Magìa,
ufficialmente ancora indisposta, ma le felicitazioni fatte a Bruno
Baroni furono tutte sincere,  anche perché il piccolo Giovanni,
addormentato in una carrozzetta di lusso bianca e blu, era in
effetti un bellissimo bambino, roseo e aggraziato nei lineamenti,
coi capelli folti e pettinati come un grande e coi globi degli occhi
rilevati sotto palpebre dalle lunghe ciglia. Giaceva placido e
immobile, avvolto in trine celesti, mantenendo ostinatamente le
due braccia sotto le coperte rimboccate fino al collo, e per tutto
il tempo della festa non sbadigliò una sola volta, né tanto meno
si sgranchì le braccia mostrando il moncherino che ancora
nessuno aveva visto.
 
 

 Era perciò Bruno Baroni, che accoglieva in piedi le
felicitazioni, a ricordare a tutti che Giovanni aveva «un
difettuccio» e, pur non drammatizzando, a rivelare un dolore
che d'altronde era visibile nella completa assenza di sorriso dai
suoi occhi. Per questo, senza dire nulla, lo compativano tutti e
l'unico che non si lasciò commuovere fu mio nonno Teodolindo,
venuto di persona ad accompagnarmi (mentre mia madre aveva
di nuovo rifiutato, inspiegabilmente, di salire al palazzo di Colle
Maggiore). A Bruno Baroni mio nonno non fece complimenti ma
neppure lo compassionò, limitandosi a dire che «il difettuccio
non avrebbe impedito al piccolo Giovanni di essere un Baroni»,
ricordando che «essere poveri è un difetto maggiore» e che,
essendo già inverno inoltrato, metà della gente di Tricastro era
venuta alla festa per sfamarsi e per «riportarsi il complimento
nelle case dove non c'era più niente da mangiare». Mia madre,
quando seppe che mio nonno si era messo a dire queste cose in
faccia a Bruno Baroni e alla gente del paese, si arrabbiò come
non l'avevo mai vista e ancora di più si impermalì quando si
accorse che io avevo capito quasi tutto, e strepitò col padre,
rimproverandogli le sue prediche e soprattuto il suo fare
sempre di ogni erba un fascio, senza mai considerare i drammi
personali, ad esempio ora il dramma di Magìa se non quello di
Bruno, o quello del piccolo Giovanni che era ancora un'anima
innocente.
 
 

 Mio nonno, però, non si dava mai per vinto e le sue liti con
mia madre, sempre serie e mai rancorose, erano all'ordine del
giorno e così ora alla figlia ribatteva che, a non parlare di tutti i
mutilati che la seconda guerra mondiale rimandava a casa, se si
volevano fare i casi individuali, al moncherino del piccolo Baroni
bisognava aggiungere gli altri sciancati naturali del paese, come
ad esempio la famiglia dei muti Cenciarelli, cenciosi oltre che
muti, o quella dei ciechi Venanzi, in sei a girare senza occhi per
le vie, o i due Bove senza gambe e Norina costretta invece a
camminare a quattro zampe, o Ottavio di Quintino con la testa di
pesce o Flavio La Colomba, con le ossa così fragili da essere
sempre fratturato ma con la bocca infiorata da sessantaquattro
denti disposti in doppia fila. Io, bambino, questa gente la
conoscevo di vista tutta quanta e, per influsso delle
rassicurazioni di mia madre, non ne avevo mai provato né paura
né disprezzo, ma a sentire l'elenco di mio nonno (come se si
trattasse di una folla) mi sentivo schiacciare dall'orrore di
essere nato in un paese di mostri a cui adesso bisognava
aggiungere il piccolo Giovanni senza mano. Tuttavia, in quei
litigi, io stavo sempre dalla parte di mia madre e, come lei, mi
rifiutavo di annegare nel numero dei tanti la vicenda personale
del piccolo Giovanni e di sua madre Magìa e perciò, a cinque
anni, continuavo a salire ogni volta che potevo sul Colle
Maggiore, nella speranza di incontrare nella piazza la carrozzetta
del bambino, vedere finalmente il suo braccio senza mano ma
anche promettere a Giovanni che, in futuro, io sarei sempre
stato amico suo.
 
 

 La mia, infatti, non era solo curiosità ma anche, come
diceva mia madre, desiderio di condividere la vita di chi aveva
più problemi e perciò mi facevano disgusto le parole di un
ragazzo delle baracche di Colle Ultimo, di nome Diodato, che ogni
volta che mi incontrava faceva, chissà perché, la parodia di
Giovanni Baroni fingendo di chiedermi l'elemosina perché aveva
«una mano con cinque dita e una con tre e due». Comunque, al
Colle Maggiore, io Giovanni non l'ho mai incontrato mentre
spesso ho visto Bruno Baroni che mi trattava con simpatia e
sempre mi accarezzava i capelli mentre mi chiedeva notizie di
mia madre. «Come sta Tilde tua madre», era la frase con cui si
rivolgeva a me passandomi una mano sulla testa e io, in
completa soggezione e senza desiderio di fuggire, lo guardavo
per vedere se stava sempre pensando alla mano mancante di
suo figlio. Magìa, invece, l'ho vista una sola volta ma ho sempre
saputo che le mie visite al Colle Maggiore erano tutte finalizzate
al mio incontro con lei.
 
 

 Sulle prime, Magìa non si era nemmeno accorta di me e io
avevo potuto a lungo contemplare la sua faccia e il suo corpo
che trovavo bellissimo e che aveva già provocato la mia prima
erezione consapevole. Quando mi ero accorto che il fenomeno si
produceva in me alla vista o al pensiero di Magìa, io avevo
avuto il coraggio di parlarne a mia madre con cui, quando ci
dormivo insieme o quando mi faceva il bagno, la cosa si era già
verificata molte volte senza una mia pur minima intenzionalità.
Mia madre dunque sapeva di questo mio fenomeno e anzi,
quando lo constatava, mi sorrideva come non la vedevo mai in
altre circostanze e spesso faceva vibrare il mio sesso irrigidito
colpendolo delicatamente per scherzo con le dita, ma ora che la
mia erezione io l'associavo ai pensieri che mi portavano di
fronte a una donna adulta e sconosciuta, trovai modo di
chiederle spiegazioni  e, al bagno successivo che mi fece,
durante il quale io provocai il fenomeno pensando intensamente
alla bellezza di Magìa, mi inventai il problema che io non potevo
sapere con esattezza il mio peso perché, sia pure di pochissimo,
ci doveva pur essere una differenza tra quando il mio sesso era
piccolo e quando invece era grande. Non ricordo più che cosa mi
rispose mia madre (ricordo, invece, perfettamente la sua risata),
e, quanto al sesso, di lì a poco avrei saputo tutto da Diodato delle
baracche di Colle Ultimo, però so che quando al Colle Maggiore
fui visto da Magìa e potei guardarla in faccia, la mia erezione in
atto venne meno perché Magìa io non l'avrei nemmeno
riconosciuta, se non fosse stato per il vestito, che, pur scuro e
quasi da lutto, era per la foggia e per il velo, adesso chiaro,
singolarmente simile a quello che indossava la prima volta che
l'avevo vista e che mi aveva fatto tanta impressione proprio
come donna.
 
 

 Col volto immobile, pallido come il velo che le copriva la
testa ma con due peste occhiaie ad annerire il suo sguardo
dilatato, Magìa sembrava una statua,  non fosse stato per il
tremito nervoso delle gambe, però ormai mi aveva visto e si era
interessata a me domandandomi chi fossi. «Il nipote di
Teodolindo», avevo detto io mettendo avanti il nome rispettato
di mio nonno come scudo e Magìa era rimasta colpita,
cominciando a sorridere con occhi subito rasserenati, totalmente
presa dalla curiosità di conoscermi. «Sei il figlio di Tilde», mi
aveva detto battendo la mano sul sedile per farmi accomodare
accanto a sé e, una volta avvicinatomi, per accarezzarmi le
braccia e la testa. Sorridendo, Magìa era ai  miei occhi tornata
bellissima e la mia erezione si era ripresentata, ma lei subito
aveva cominciato ad osservarmi le mani ed era ritornata cupa
nell'espressione mentre mi guardava con così intensa curiosità
che io ne ebbi paura e mi divincolai mettendo me e le mie mani
a molti metri di distanza, pronto a scattare in una fuga in
discesa verso casa. «Quanti anni hai», mi stava domandando
Magìa senza rimproverarmi per la mia paura (ma senza
attendere la mia risposta). «Sei già troppo grande», mi stava
dicendo, già tutta concentrata su di sé e solo a tratti
guardandomi senza tenerezza. «Tilde ti alleva bene e tu vivrai »,
diceva mentre i suoi occhi diventavano sempre più torvi e la
sua voce risuonava nell'aria senza canto, «ma, credimi, non ne
vale la pena e anche per te sarebbe meglio non essere mai
nato». Mi osservava severa ma le sue parole, pur comprese, non
mi fecero alcuna impressione, mentre mi spaventò l'allucinata e
magra figura di fantasma che Magìa divenne quando si fu alzata
per rientrare a palazzo, col vento che ne agitava i vestiti e ne
allungava la figura fino a disintegrarla, mentre io non capivo più
come avevo potuto trovarla così bella e una solida erezione ora
me la procurava il ricordo del corpo formoso di mia madre.
 
 

 D'altronde, quella  volta fu anche l'ultima che io vidi
Magìa, ma la sua sparizione da Tricastro, simultanea a quella di
Bruno Baroni e del piccolo Giovanni, non ha rappresentato
proprio niente per me che solo anni dopo, quando il filtro con
l'esterno rappresentato da mia madre fu distrutto da Diodato
delle baracche, venni a sapere che Magìa aveva tentato di
uccidere suo figlio attribuendo direttamente a Dio la
responsabilità del suo omicidio. Scoperta dal marito e impedita
dal compiere il suo atto, Magìa aveva perso la ragione,
diventando una terribile e implacabile bestemmiatrice che ogni
giorno tentava il suicidio. Per salvare il figlio, Bruno Baroni lo
aveva messo in un collegio di frati e, per evitare i discorsi di
Tricastro, si era trasferito a Roma dove, dapprima aveva tentato
di far curare la moglie e, infine, si era dovuto arrendere e non
aveva potuto impedire che Magìa finisse in manicomio.
 
 
 

4
 
 
 

 In quegli stessi giorni del '43 mi arrivarono anche le
prime notizie della guerra che imperversava praticamente da
quando ero nato ma di cui non avevo mai sentito nulla
all'infuori dei discorsi disfattisti di mio nonno e delle impaurite
preghiere di mia madre. Il mio primo ricordo è un insistito
suono di campane che si diffuse su Tricastro e che determinò un
trambusto mai visto per le strade. In questa scena animata e
piena di volti (ormai quasi tutti sconosciuti) è del tutto assente
mio nonno che pure avrebbe dovuto essere il più contento di
tutti, ma è ben presente mia madre, prima inginocchiata in
cucina, le mani giunte e gli occhi levati al cielo in un trasporto
estatico insolito anche in lei e, dopo, tanto commossa da non
badare a me e tanto esaltata ad uscire con gli altri per le strade
da trascurarmi consapevolmente. «Gesù, sempre alle costole», si
era detta allontanandomi dalle sue gonne con un gesto di
fastidio e la frase, pur non compresa appieno, mi aveva tanto
ferito da essere rimasta come la prima parola articolata che mi
ricordi di lei (e che un poco mi estraniò), anche se il mio
risentimento era svanito quando era ritornata e, come se niente
fosse stato, mi aveva preso sulle ginocchia,  raccomandandomi
di ricordarmi di quell'otto settembre del '43, perché in quel
giorno era finita la guerra. Io la notizia la rifiutai,  ma più per
ritorsione verso la sua trascuratezza che per l'influenza dello
scetticismo di mio nonno, il quale, rientrato in casa di cattivo
umore,  si era messo a discutere con mia madre prevedendo,
inspiegabilmente, un inverno pieno di tempeste. O forse, alla
fiducia di mia madre si sovrappose la disperazione che ci aveva
già colpiti o che stava per colpirci direttamente, non lo so più
bene perché non posso più assodare se l'episodio che ricordo
accadde d'agosto o di settembre, cioè prima oppure dopo del
momento in cui si diffuse la notizia della fine della guerra.
 
 

 So solo che il lutto che colpì la mia famiglia è legato per
me alla raccolta delle pere ma, appunto, non ricordo se si
trattava di pere agostine, che si raccoglievano mature attorno a
Ferragosto, o di pere spadone, che invece si coglievano ancora
acerbe di settembre. Tuttavia di pere certamente si trattava
perché io stavo con mio nonno sul costone di Monte Rovere da
dove, come tre gobbe di un fantastico cammello, si vedono i tre
colli di Tricastro con sulle cime i tre castelli. Nel primo
pomeriggio, mio nonno ancora riposava semisdraiato nella
carriola che, le due stanghe poggiate a terra e la ruota in aria,
lui usava come poltrona a sdraio e, quando l'orologio del comune
suonò le due, io, come d'accordo, mi decisi a svegliarlo
cominciando a far girare la ruota dietro la sua testa. Non potei
però neppure cominciare a dare il mio segnale perché fui
preceduto di un soffio dal grido lancinante che arrivò dal paese,
svegliò mio nonno come un incubo del suo proprio sonno e lo
mise in piedi  preoccupato come io non l'ho più visto.  Senza far
parole e senza badare a me,  nonno Teodolindo cominciò a
scendere veloce per la costa, lasciando incustodita la cesta
mezzo piena di pere e calando in paese a passi così lunghi che io
fui costretto a scapicollarmi per tenergli dietro (e continuavo a
chiamarlo senza essere sentito e arrivavo a maledirlo prima di
scoppiare a piangere), ma la sua premonizione  stava però per
risultare vera perché al paese ci attendeva una doppia disgrazia,
una capitata lontano nello spazio e nel tempo e l'altra invece
proprio nel presente e nel paese.
 
 

 La prima disgrazia era successa mesi prima (ma la notizia
ne era appena giunta) e riguardava un cugino di mia madre, di
nome Aquilino, morto di freddo in Russia per non aver voluto
abbandonare il suo tenente ferito nella neve. Quella morte mi
dispiacque molto perché Aquilino io me lo ricordavo vestito da
soldato, con la penna da alpino sul cappello, che salutava mia
madre rosso in faccia e con gli occhi illuminati dal sorriso,
mentre tratteneva la mano di lei tra le sue (e io, stranamente,
non ero stato geloso e anzi quel sorriso di intimità che mia
madre mostrava di gradire mi aveva scombussolato, per la
prima volta facendomi pensare che uno come Aquilino, o forse
lui in persona, poteva essere mio padre). La seconda disgrazia
stava avvenendo proprio in quel momento col suicidio della
madre di Aquilino che, ricevuta la notizia della morte del figlio,
aveva lanciato l'urlo che anche noi avevamo sentito dal costone
di Monte Rovere e poi, senza esitazione né lamenti, si era messa
uno scialle sulla testa, era uscita di casa e si era andata ad
annegare al Lago Lucciola che pure era ridotto ad una pozza
profonda non più di mezzo metro. Quelle due disgrazie
riguardavano noi in particolare perché Sabina, la madre di
Aquilino, era vedova di un fratello di mio nonno che era morto
nella prima guerra mondiale e, adesso che le avevano ucciso
anche il figlio, non aveva proprio più nessuno per cui vivere. Il
suo corpo, perciò, fu composto a casa nostra e fu vegliato da mia
madre e da mio nonno con poche altre donne delle baracche di
Colle Ultimo e con Uliano che avrebbe aiutato  a costruire la
bara. Venne anche l'arciprete, che si trattenne a lungo ma non
volle celebrare il rito funebre né permettere la sepoltura in
terra consacrata e, da un certo punto in poi, la veglia fu
disturbata dal litigio, nella stalla-bottega, tra mio nonno e
l'arciprete che finì per andarsene offeso (dall'accusa di volersi
mostrare umano e rispettoso quando invece era spietato e
intollerante verso una donna a cui la sorte aveva tolto tutto e
anche la vita), mentre mia madre piangeva e, questa volta, non
sapeva dare a suo padre tutti i torti.
 
 

 Per conto mio, quella veglia fu memorabile perché,
trasgredendo la consegna di mia madre e approfittando della
confusione, ero entrato nella stanza dove giaceva zia Sabina e fu
la prima volta che vedevo un morto. La zia Sabina io l'avevo
riconosciuta subito per morta (anche se il suo corpo non era
privo di forma come avevo visto di un coniglio rimasto quasi
irriconoscibile nella conigliera), perché la faccia infarinata e le
labbra schiacciate sui pochi denti e completamente sigillate,
fuorché in un nero punto all'angolo sinistro della bocca, mi
avevano detto chiaramente che la zia era diventata una cosa e
non si sarebbe più svegliata. Io però non ne presi atto subito ma
solo alla fine della veglia, che durò fino al tramonto del giorno
dopo, quando, senza campane e senza ufficio funebre, sul piccolo
carretto di Uliano tirato da un mulo di mio nonno che si
chiamava Oreste, zia Sabina fu portata al cimitero e fu sepolta
fuori del muro di cinta, in un rettangolo  di terra sconsacrata ma
destinata alle tombe. Il piccolo corteo si  mosse mentre l'aria
scuriva e il tempo si guastava cominciando a lampeggiare senza
pioggia né tuoni, con mia madre che, vinte le sue esitazioni,
volle accompagnare la morta  ma fu inflessibile con me e mi
lasciò solo a casa con Artù, il cane di mio nonno  che per la
prima volta era salito al piano abitato dalla stalla, mentre si
levavano forti raffiche di vento, da oltre le montagne
arrivavano nere nuvole e cominciavano a scoppiare i tuoni di
quel lungo lampeggiare. Io, per la mia solitudine e per quei
tuoni, cominciavo a impaurirmi (rivedevo dovunque la zia
Sabina morta e il nero buco nelle sue labbra sigillate ) e anche
Artù, spaesato, uggiolava con così lunga  insistenza  dietro la
porta chiusa delle scale per la stalla che io mi decisi a scendere
con lui dove stavano gli altri animali, acquietandomi col parlare
con loro, mentre anche Artù scodinzolava sereno e io dicevo alle
bestie che mio nonno aveva sempre ragione e che avremmo
avuto davvero un inverno lungo e amaro.
 
 
 

5
 
 
 

 In effetti, quell'inverno fu lunghissimo e pieno di tedeschi
che, al comando di un maturo ufficiale, di tutto il paese
requisirono solo il piano abitato della nostra casa e confinarono
noi nel mezzanino. Per fortuna, le paure di mia madre e di mio
nonno si dileguarono presto perché il comandante tedesco,
vedovo, si innamorò  di mia madre, chiedendo ufficialmente di
sposarla a guerra finita e imponendo a se stesso e agli altri il
massimo rispetto. Mia madre, anche lei, passava per vedova e,
accampato un periodo di lutto col fidanzato  tedesco, mi prese
per maggior sicurezza  in camera con lei (cioè in quell'angolo del
mezzanino odoroso di frutta in cui ci eravamo sistemati) e io ero
tornato a dormire  nel suo letto dopo il già lungo periodo della
mia estromissione. Questo sviluppo abbastanza favorevole della
situazione, però, non impedì ai tedeschi di rimanere padroni a
casa nostra e, ad esempio, di mangiarsi quasi tutte le bestie di
mio nonno. In poche settimane finì la carne di maiale che
doveva durare un anno, sparirono gli agnelli,  le galline e i
conigli e fu difficile convincere i tedeschi che mio nonno non
aveva intere greggi ai pascoli di montagna ma, ormai, solo un
asino, due muli e tre vacche anziane. Loro tornavano alla carica
quasi ogni giorno, chiedendo sorridenti e tenaci di cucinare un
«piccolo bèh» o un «fratel coniglietto» e iniziavano lunghe
discussioni, mentre mia madre se ne stava chiusa in camera e io
mi sentivo costretto e quasi in carcere. In primavera, il rispetto
del fidanzato per mia madre cominciò a mostrare segni di
cedimento e anche io mi ricordo il suo concitato bussare di notte
alla porta rinforzata da un paletto che mio nonno aveva allestito
per noi e la sua voce imperiosa e insieme incerta, ma una
domenica mattina se ne erano andati senza neanche avvertire e
di loro mi ricordo con astio solo per le  scene di mio nonno che
uccideva  i suoi animali.
 
 

 Di quelle scene ho conservato il disgusto e anche la rabbia
verso mio nonno che, per non farsi vedere dagli altri animali, si
metteva fuori della stalla, oltre lo specchio della porta, seduto
sulla carriola con le stanghe appoggiate a terra. Gli animali alla
cui uccisione ho assistito erano in genere conigli che mia madre
reggeva capovolti per le zampe posteriori,  mentre mio nonno
dalla tasca del gilet estraeva un coltello e ne apriva la lama con
irritante lentezza. Quando mia madre cominciava a dare segni di
risentimento, mio nonno si decideva all'improvviso, afferrava il
coniglio per le orecchie e, mormorando scongiuri, gli immergeva
il coltello nel collo resistendo (come resisteva mia madre) agli
strattoni che la bestia dava prima di morire. Il mio disgusto,
però, raggiungeva il limite di farmi vomitare quando mio nonno,
dopo averlo spellato, apriva il ventre del coniglio e io vedevo
formarsi l'apertura che si arrotondava sotto la spinta intricata
delle viscere fino a formare un volto orribile e pauroso, mentre
nell'aria si diffondeva un fetore che faceva voltare la testa a mia
madre ma che mio nonno, quasi per vendicare il coniglio appena
ucciso, non esitava a definire uguale a quello di chiunque fosse
stato ugualmente sbudellato.
 
 

 Io lo odiavo per questa sua aggiuntiva crudeltà, ma è stato
proprio in quell'inverno, con la casa piena di tedeschi e con
quelle barbare uccisioni di animali, che io ho conosciuto mio
nonno e ho cominciato a capire perché tutti lo rispettavano a
Tricastro e dintorni. A volte, assonnato, mi alzavo la notte per
vedere che faceva e lo vedevo andare, appena sveglio, alla
finestra per contemplare il cielo, nominare le stelle ed elencare i
presagi per le cose che voleva fare durante la giornata. Il cielo
sereno gli dava il respiro lungo e lo faceva scendere rallegrato
nella stalla dove per prima cosa rinnovava lo strame e
distribuiva la razione di sale. Era una operazione quasi
quotidiana ma lui ogni volta si metteva a spiegare  i vantaggi
della strofinazione alle vacche che, enormi, lo guardavano con
occhi miti girando il collo verso di lui e facendosi aprire la bocca
senza opporre resistenza.  Con la mano sinistra, mio nonno le
prendeva per le froge e, col palmo aperto della mano destra,
passava il sale sul palato leggermente accarezzando, mentre
continuava a rassicurarle parlando una lingua fatta insieme di
parole e di muggiti. Solo dopo questa operazione faceva
scendere altro fieno nella mangiatoia e si dava a spazzolare le
bestie con paziente cura, togliendo  con la pala lo stallatico e
ammucchiandolo fuori, come concime da spargere nei campi.
Dava quindi l'erba ai conigli e il mangime alle galline, mentre
parlava con l'asino e coi muli promettendo di occuparsi anche di
loro. Il cane Artù era l'ultimo a cui mio nonno dedicava le sue
cure, accarezzandolo e giocando brevemente con lui prima di
dargli da mangiare.
 
 

 Ai miei occhi di bambino, quello stare e quel parlare con
le bestie significava solo che mio nonno conosceva anche il
linguaggio degli animali e poiché lo vedevo loro amico fidato
non mi riusciva di capire come poi potesse ucciderli ed usare,
per farlo, lo stesso coltello con cui tagliava il suo pane (e anche il
mio). A queste domande mio nonno non rispondeva mai
direttamente però calmava le mie risentite arrabbiature con la
sua lenta tranquillità, mentre pensava alla colazione per noi
due, andando a rimuovere la cenere del focolare nell'attigua
bottega di falegname, riaccendendo il fuoco e preparando il suo
caffè dopo averlo tostato e macinato. Mi faceva assaggiare il
caffè nero prima di allungarlo per me col latte e mangiavamo
una fetta di pane intinta nella tazza, prima che mio nonno
compisse l'ultimo miracolo, prendendo un carbone acceso nel
palmo calloso della mano, scuotendolo ogni tanto e poi
stringendolo tra pollice e indice per accendere la pipa. Rimaneva
allora seduto a lungo nella carriola e rispondeva a modo suo ai
miei dubbi parlando per me con gli animali a cui ricordava che
le bestie della zona lui le conosceva proprio tutte, comprese
quelle morte da tanti anni e quelle che aveva ucciso di persona.
Il suo rapporto con gli animali era semplice e amichevole,
esattamente come quello con gli altri uomini, anche se non
escludeva la violenza, e perciò mio nonno poteva dire
tranquillamente, «una volta ho liberato dalla tagliola una volpe
che si chiamava Giulia», oppure, «una volta ho ucciso una lepre
che si chiamava Giacinta». Anche con le piante era la stessa cosa
e, ad esempio, del melo che avevamo davanti agli occhi nonno
poteva dire, «quando era alto trenta centimetri io a
Giovannantonio gli ho pisciato addosso per sbaglio ma lui non si
è seccato e adesso guarda che rami tiene».
 
 

 Io, in quelle notti mi ero accorto che mio nonno contava
per me più di mia madre (ero più il nipote di Teodolindo che il
figlio di Tilde) e che amavo identificarmi nelle storie che mi
raccontava, tutte ambientate a Tricastro e piene di uomini
deboli e di donne dai pensieri incendiari. Nonno mi esortava a
essere paziente, non debole come i personaggi delle sue storie e
comunque mai sfiduciato. «Gli sfiduciati sono terribili», mi
diceva, «ti corrono dietro e non ti danno respiro se, non voglia
Dio, ti imbatti nelle loro disperazioni». Mi esortava anche ad
amare Tricastro dove la sorte mi aveva fatto nascere, piuttosto
che pensare a partire senza portarmi dietro nessuno e stare
sempre a ritornare senza gusto. Mi invitava a guardarmi intorno
e mi diceva che  la valle di  Tricastro, circondata dai confini
immutabili di una solida corona di montagne, era l'intero mondo
e offriva intera l'esperienza della vita (oltre i monti, si stendeva
solo una pianura ricca di paludi, dove era impossibile orientarsi
e dove invece inevitabilmente si affondava naufragando). Io lo
ascoltavo con attenzione e gli ribattevo che a me lui non diceva
la verità perché  al suo amico Lenìn lui aveva detto che le
parole degli uomini,  liete o tristi, sono tutte vane  e che vano è
anche il  socialismo  che, come gli altri regimi, per il suo bene fa
pagare infiniti mali a tutti quanti.  Gli aveva pure detto che
l'unica verità inconfutabile è la morte che divora tutto e che  gli
uomini pensano cose complicate solo per evitare di fare i conti
con la bruta verità o, come aveva detto a Lenìn, di entrare «nel
buco del culo della realtà». Questo significava il suo epigramma
prediletto, «non tengono i pensieri / e i sogni non son veri», che
lui amava dire nei momenti buoni, mentre, in quelli d'ira,
chiedeva  a Sant'Emidio di provocare tre ore di terremoto per
Tricastro o,  peggio,  ripeteva invasato l'altro suo epigramma,
«ma che la crosta terrestre si schianti / e che il mare ci inghiotta
tutti quanti».  Mio nonno mi accarezzava sorridendo e, come al
solito, mi rispondeva indirettamente,  dicendomi che il suo
epigramma favorito era un altro, più rassicurante ma che io non
gli avevo mai sentito e che forse aveva composto per l'occasione.
«Quando partono le rondini / ci rimane il passeretto», aveva
affermato sentenziando, anche se, a suo giudizio (e anche mio)
solo le rondini sanno volare veramente. Io, citando mia madre,
gli dicevo allora che gli uomini non sono bestie, ma lui ribatteva
che la sorte degli uni e delle altre è in fondo la stessa e che a
Tricastro sono passate innumerevoli generazioni di uomini e di
bestie che non hanno lasciato traccia perché anche a Tricastro,
come dovunque, la terra è troppo battuta. A questo punto, quasi
per  ridare vita a quelle generazioni scomparse,  cominciavano
le sue storie che lo vedevano sempre presente quando,
cinquanta anni prima, correva la campagna portando a tracolla
la chitarra.
 
 

 Erano i tempi quando Bruno Baroni, nonno di quello di ora,
mandava il suo trabante (ho poi saputo che trabante significa
attendente ma anche sgherro) a spasso per Tricastro alla casa
dell'una o dell'altra. Il trabante si chiamava Serenato e parlava
con voce di ruffiano. «Ha detto che stasera ti devi presentare a
palazzo», diceva Serenato e io che già avevo cominciato a capire
il sottinteso avvampavo di rabbia. Nessuna delle donne
rispondeva, nemmeno con un cenno della testa, facendo finta di
non esistere, ma Serenato non insisteva e se ne tornava a Colle
Maggiore camminando a testa bassa, con le mani dietro la
schiena, senza guardarsi le spalle. Loro, le donne, aspettavano
che tornassero i mariti e allora, poiché era necessario,
riacquistavano la parola. «Senti tu», dicevano, «stasera si è fatto
vivo Serenato», e poi facevano una pausa dando tempo ai mariti
di sedersi sbiancati accanto al fuoco, mentre loro cominciavano a
mettere il mangiare sulla tavola. «Tu che dici che devo fare»,
dicevano le mogli dopo aver aspettato un bel pezzo, «portarmi
un coltello e infilarglielo dove sente meglio?», ma i mariti (che
vuoi mangiare in quelle condizioni!) ancora cercavano forza in
un bicchiere di vino. «Non lo so», dicevano i mariti, «lo sai tu che
devi fare», ma parlavano senza convinzione e, del resto, le mogli
non potevano dare tregua. «No», dicevano  le mogli, «mi  devi
dire  che devo fare, se non te la senti di dargli tu una
schioppettata», e allora i mariti uscivano incazzati e digiuni, ma
sapevano tutti che, a Tricastro, Bruno Baroni era l'unico che
poteva dire a chiunque di loro, «bene, oggi hai lavorato e puoi
mangiare, domani vai a sederti sui gradini di una mia casa e
aspetta», e allora rientravano subito con la coda tra le gambe.
«Ho pensato che è meglio se fai quello che devi fare», dicevano
alle mogli e se ne andavano a letto per non vederle quando si
mettevano lo scialle sulla testa e uscivano  senza far rumore.
 
 

 Io interloquivo sempre per protestare contro questi
soprusi e facevo l'esempio di cosa avremmo fatto noi se fosse
toccato a mia madre,  ma mio nonno mi rassicurava dicendomi
che i tempi erano cambiati e che il Bruno Baroni di ora non si
poteva nemmeno sognare qualcosa di simile. D'altronde, anche
ai tempi di suo nonno, il potere dei Baroni a Tricastro si andava
perdendo se la gente ci poteva fare sopra poesie e canzoni e
anzi, proprio mio nonno Teodolindo, nel carnevale del l89O,
quando era ancora un ragazzo, aveva recitato un discorso sui
Baroni e sul loro trabante fatto dall'arciprete di allora che lo
aveva scritto di nascosto. Il discorso, mio nonno se lo ricordava
ancora dopo più di cinquanta anni e me lo recitava, ridendo,
tanto bene che anch'io me lo ricordo ancora. «Nacque, il nostro
Carnevale, a Calcutta dell'India, da Serenato vassallo di Baronia
e da Monna Carlotta di Ricotta». L'arciprete diceva che era tutta
ironia. «Non ci capiranno un cazzo», aveva detto  a mio nonno
ma ugualmente quel Bruno Baroni di allora era capace di vivere
tranquillo col pensiero che oltre all'ironia andava incontro a una
schioppettata che da un momento all'altro si poteva prendere
alla schiena. Quella schioppettata,  accidentale come una caduta
che ti rompe la noce del collo, l'aveva avuta poi effettivamente,
molto tempo prima della mia nascita, una mattina d'estate, col
sole che già splendeva mite tra le piante, senza che si sia mai saputo
chi era stato a premere il grilletto.
 
 
 

6
 
 

 

La svolta, nella mia infanzia (diventai un altro bambino),
si produsse quando uscii parzialmente dalla tutela di mia
madre, cominciando a frequentare la scuola elementare nel
nuovo edificio di Colle Maggiore. Infatti, sebbene io sia stato
sempre un bravo studente e abbia proseguito gli studi fino a
conseguire una brillante laurea in legge, è questa l'unica scuola
di cui mi ricordo (dalla maestra Vento che veniva da fuori e
alloggiava a pensione dal custode dell'edificio, ai miei compagni
di classe), perché i cinque anni di scuola elementare sono stati il
periodo in cui la mia crescita è stata veramente senza pari e le
mie imprese sono state le più belle di tutta la mia vita. A
Tricastro,  allora, noi bambini in età scolare eravamo circa
ottanta tra  maschi e femmine però, siccome non eravamo
sufficienti a formare cinque classi distinte, ci avevano diviso in
due gruppi misti in cui erano presenti scolari di tutte e cinque le
classi elementari. Nella mia aula, a fare la prima elementare nel
l944, eravamo solo in tre, io e due bambine, Nunziatina Sinni,
che era già ripetente non avendo mai frequentato l'anno prima
perché le era morta la madre dopo lunga malattia, e Rosetta
Grossi che veniva dalle baracche di Colle Ultimo e che fu sempre
la più brava della classe. Delle altre quattro classi, i ragazzi
erano complessivamente trentotto e io me li ricordo bene quasi
tutti, ma quelli con cui  avrei fatto amicizia erano proprio i più
discoli,  Diodato Caputi che faceva la seconda ed era ripetente,
Oscarino Iafrate e Ivo Seghi detto il Seghino che avevano nove
anni e facevano la terza, e Ottavio Stampellaro che di anni ne
aveva dodici e faceva la quarta. D'altra parte, era inevitabile che
li notassi fin dai primi giorni di scuola perché, dall'inizio
dell'anno,  avevano cominciato a confrontare in classe il loro
sesso per valutarne la grandezza e per rivendicare, con lunghe
discussioni e perfino con richieste di arbitrato, ognuno a sé il
massimo di gradimento da parte della maestra Vento che a
Tricastro era venuta quell'anno ed era, a giudizio comune, molto
bella.
 
 

 Io rimanevo di sale e mi stupiva molto il fatto che gli altri
ragazzi (soprattutto le femmine) facessero finta di non vedere e
di non sapere, tanto che più di una volta fui tentato di
denunciare il fatto alla maestra o almeno di parlarne con mia
madre, però non l'ho mai fatto perché, se non avevo nessun
sentimento di omertà né mi vergognavo ad affrontare il tema di
quello svergognato esibizionismo, tutto quello che facevano quei
quattro era così sorprendente che insieme mi respingeva e
affascinava. D'altronde, la mia vita in prima elementare era
molto noiosa e consisteva nel quotidiano ricopiare sul quaderno
le lettere dell'alfabeto che la maestra Vento scriveva alla
lavagna, senza accorgersi che io già le conoscevo, da tempo
insegnatemi da mia madre che aveva inventato per me una
frase che le conteneva tutte. «La buona macedonia di frutta
zucchero e vino è spiacevole quando è gelata», aveva detto mia
madre e mi ricordo le discussioni che avevo fatto con lei perchè
invece la macedonia la preferivo proprio gelata (ma debbo
ammettere che è su quella frase che ho imparato a scrivere,
avendo rifiutato la variante, «la buona macedonia di frutta e
zucchero ma senza vino è piacevole quando è gelata», perché, se
salvava la freschezza e la esse, mi costringeva a rinunciare al
vino che invece mi piaceva solo nella macedonia). Tuttavia, se la
maestra Vento continuava a scrivere sulla lavagna, o sulla
prima riga del mio quaderno, lettere dell'alfabeto o sillabe che
io dovevo ricopiare su tutta la pagina ed era così poco attenta da
non accorgersi delle scene che avvenivano in classe, io per la
brevità del mio lavoro e per quelle scene mi ricordo del suo
volto e ancora più del suo lodato sedere.
 
 

 La mia metamorfosi, però, a partire dal secondo anno,
avvenne soprattutto fuori della scuola e iniziò per cause che
ricordo molto bene. Infatti, per il mio settimo compleanno, io
avevo ottenuto il regalo più desiderato, un coltellino che il
comandante tedesco aveva regalato a mia madre e che io avevo
visto spesso nel cassetto del banco da falegname di mio nonno a
cui lo avevo chiesto insistentemente anche per brevissimi
prestiti. Fare pazzie per quel coltellino valeva certo la pena
perché era un multiuso tedesco di straordinaria bellezza che,
dalla spesse costole, lasciava uscire: a) un cacciavite grande con
cavatappi e spezzafili; b) un apriscatole; c) un cacciavite piccolo
con lente; d) un seghetto per metallo; e) una lima per ogni
materiale; f) un seghetto per legno con doppia fila di denti; g) un
paio di forbici; h) una chiave inglese per bulloni fino al numero
otto; i) un cacciavite a stella; l) una lama di coltello lunga
quattro centimetri e mezzo; m) una lama di coltello lunga un
centimetro e mezzo; n) una limetta per manicure; o) un
cavatappi a spirale; p) un punteruolo; q) una pinzetta. La lama
di tre dita era sufficientemente lunga e spessa per uccidere (un
coniglio e, forse, anche un bambino della mia età) e per questo
mio nonno non voleva darmelo, ma io avevo fatto tante
promesse e avevo tanto insistito che lo ottenni come regalo in
prova e posso dire tranquillamente che, quando potei metterlo
in tasca e lo sentii pesare nella mia mano che ne accarezzava i
fianchi ricoperti di lucida e colorata madreperla, io conobbi una
felicità che mi era ancora sconosciuta. Ora, una delle prime
mattine del nuovo anno di scuola, quando ancora non lo avevo
fatto vedere a nessuno, il mio coltello sparì dalla mia tasca
misteriosamente e, sebbene lo avessi toccato mille volte durante
il tempo passato in classe, a un tratto, uscendo, mi ero accorto
che non c'era più. La coscienza che non lo avevo né dimenticato
né perduto da nessuna parte fu immediata ma, se mi sentivo
addosso un'agitazione indomabile, riuscii tuttavia a non parlarne
con nessuno e a disciplinare la mia rabbia. Io, in vita mia, non
ho più conosciuto una determinazione pari a quella di cui mi
caricai per ritrovare il mio coltello e ritoglierlo a Diodato Caputi,
che (ne ero sicuro) era il ladro che me lo aveva sottratto e che
infatti era già sparito dalla vista appena uscito da scuola, lui che
normalmente era sempre l'ultimo ad andarsene perché nella
baracca di Colle Ultimo dove abitava non lo aspettava mai
nessuno. Avevo voglia di inseguirlo ma poi decisi freddamente
di tornare a casa, poiché mia madre e mio nonno mi avrebbero
cercato dappertutto se non lo avessi fatto, rassegnandomi a
mangiare normalmente, a fare tutti gli stupidi compiti di scuola
prima di chiedere il permesso di uscire per giocare, cioè per
rintracciare Diodato.
 
 

 Uscito di casa, non una briciola della mia determinazione
era andata perduta e io mi diressi subito dove mia madre mi
aveva sempre proibito di andare, affrettandomi verso Colle
Ultimo, nelle cui baracche abitava la maggior parte dei miei
compagni di scuola. Oltrepassato Colle Maggiore, col palazzo
sbarrato dei Baroni, cominciai a scendere l'altra costa senza
guardarmi intorno, percorrendo il dedalo di viuzze e girando
molte volte a destra e a sinistra prima di trovare, non so come,
la strada in salita per Colle Ultimo, dominato dalla casa castello
di Matto Sinni, dietro alla quale si apre lo spiazzo circondato
dalle baracche. Dalla finestra dello stalluccio, che si apriva sul
muro di cinta dell'orto della casa, mi vide Nunziatina Sinni che
veniva a scuola con me e che mi salutò interrogativamente con
gli occhi, ma io non risposi neppure, sebbene solo in quel
momento mi rendessi conto che Nunziatina era dunque figlia di
Matto Sinni che aveva fama di uomo terribile e tremendo, e
continuai a camminare verso lo spiazzo delle baracche sulle cui
pietre quasi tutti gli scolari di Tricastro stavano giocando una
partita a pallone. Il portiere della squadra che aveva la porta
dalla parte da cui arrivavo io era Stampellaro che, nell'istante in
cui lo vidi,  stava parando un tiro degli avversari, respingendo
la palla con una delle due stampelle che lui usava come gambe e
che aveva fulmineamente sollevata. Il pallone (quel giorno lo
vidi per la prima volta) era fatto con carta di sacchi di cemento
appallottolata e stretta da un reticolo di spago, costruito con
paziente abilità da Stampellaro che in questa operazione era un
maestro. Tutti i palloni di Stampellaro, perfettamente rotondi,
rimbalzavano come se fossero di gomma e avevano il vantaggio
di essere continuamente riciclabili, tanto che quegli oggetti fatti
a mano, per partite che duravano interi pomeriggi su un terreno
petroso, si lasciavano nettamente preferire ai palloni di cuoio,
come dimostrò l'anno appresso quello regalatomi da mia madre
dopo un intero anno di insistenze e che, accolto da un boato di
ovazioni, già con poche partite si era consumato e, poiché a nulla
erano valse le riparazioni del calzolaio di Colle Maggiore, era
presto diventato inservibile.
 
 

 Quella, per me, era la prima volta che mettevo piede a
Colle Ultimo ma entrai in campo risoluto, dirigendomi verso
Diodato che giocava contro Stampellaro, e ottenni subito il primo
risultato che la partita fu sospesa e tutti si misero ad osservare
come mi sarei comportato. Diodato fu l'ultimo a lasciare il
pallone, inizialmente fingendo di non avermi visto, ma la sua
finzione diventò presto ridicola perché gli altri si erano fermati
e lui fu costretto a rivolgersi a me con la faccia strafottente che
gli conoscevo da quando lo avevo sentito fare lo spiritoso sulle
mani di Giovanni Baroni. «E' troppo bello», mi disse parlando a
voce così bassa che solo io potei sentire la confessione del furto
del mio coltellino. Io non fiatai (mi ero fermato avanti a lui col
cuore in tumulto, cercando di non perdere la calma) ma,
vistosamente, lo invitai a restituirmelo con un gesto perentorio
e ripetuto delle mani. «Ma tu che vai cercando qua», disse allora
Diodato parlando a me ma rivolto agli altri perché sentissero
tutti, «il culo rotondo di tua madre?». Io avvampai di rabbia  ma
la risata di scherno che era scoppiata tutt'intorno mi fece
contenere, consigliandomi di essere prudente e, insieme,
togliendomi di dosso la vergogna che provavo a sentir parlare
quel linguaggio. «No», dissi anch'io gridando perché tutti
sentissero, «sono venuto a riprendermi il coltello che tu mi hai
rubato». «Questo?», disse Diodato estraendo da una tasca il mio
coltello e mostrandolo in giro. «Quello», dissi io, riconoscendolo
emozionato e avvicinandomi per riprenderne possesso. Diodato
però si mise a sfuggirmi, scartando lontano da me e io presi a
inseguirlo con crescente frustrazione, poiché lui poteva farsi
scudo contro di me di tutti gli altri che si prestavano al suo
gioco. Dopo vari e vani tentativi ero così disperatamente
infuriato che, imperiose, affiorarono nella mia bocca le prime
volgarità della mia vita, imparate chissà come e chissà dove ma
divenute familiari e necessarie sullo spiazzo delle baracche di
Colle Ultimo. «Ti sputo in faccia e mi fai schifo», urlai a Diodato
suscitando la generale ilarità, mentre anch'io mi rendevo conto
che quelle mie parole erano impotenti e quasi miserabili.
 
 

 Allora, al colmo della disperazione, mi fermai smettendo
quel vano inseguimento. «Ma fermati e combatti», dissi a
Diodato, «stronzo nero di merda», e poiché Diodato continuava a
ridere senza reagire,  imitato da tutti gli altri, io feci qualcosa di
cui non mi sapevo capace e, senza osare di estrarlo fuori, mi
presi il sesso con le mani rivolgendolo (molto consapevolmente)
verso tutti quanti. «Dico a voi», gridai, «ci rompo il culo delle
vostre mamme». Fu allora che Diodato si fermò serio accanto a
Stampellaro, mentre da parte di tutti si levò alto il grido
«Teodolindo Teodolindo», con cui intendevano rispondere alle
mie insolenze usando il nome di mio nonno come se fosse un
offensivo soprannome. Io ero rimasto offeso in quella posa
oscena, col bacino esposto e le mani chiuse a pugno una
sull'altra a fingere un mio enorme sesso, immobilizzato da quel
grido collettivo di scherno che mi ridicolizzava e mi metteva
ormai sul punto di scoppiare a piangere convinto di aver perso
una battaglia che invece avevo vinto. Diodato, infatti, mi si era
personalmente avvicinato restituendomi il coltello, mi aveva
invitato a rimanere sfidando di nuovo Stampellaro e aveva
cominciato a costruire la sua nuova squadra nominando me al
primo posto nella scelta dei compagni (come pure aveva fatto
Stampellaro che mi voleva con sé).
 
 
 
 

7
 
 
 

 Con quella partita ebbe inizio la mia disobbedienza a mia
madre che, a casa, trovai già disperata, mentre anche mio nonno
si faceva scoprire ansioso e autoritario. Io me l'aspettavo una
reazione ma rimasi molto colpito dalla loro volontà di dirmi
tutto quello che dovevo o non dovevo fare e risposi con durezza,
provando per la prima volta un vero disagio a vivere in una
casa che controllava ogni mio movimento e invidiando la
meravigliosa e totale libertà dei ragazzi di Colle Ultimo. Provavo
vaghi sensi di rimorso per il dolore di mia madre ma era bastato
un semplice pomeriggio a farmi scoprire un mondo così diverso
e affascinante che non potevo a nessun costo rinunciarvi (e,
insomma, non tardavo a scoprire che la mia autonomia era già
testarda e inconvincibile dal momento primordiale in cui
nasceva). Infatti, già tornando a casa, nonostante il pensiero di
dover affrontare i rimproveri dei miei, io avevo incominciato a
fare i miei piani e non mettevo in nessun conto la possibilità di
rinunciare ai nuovi amici, già disposto a disprezzare le lacrime
di mia madre, immediatamente giudicata incapace di capire il
mondo e la novità con cui lo guardavano i miei occhi. Perciò, pur
di raggiungere i miei amici, io già da quell'inizio ero disposto sia
a mentire sia a scappare di casa e, se l'amicizia riguardava
soprattutto me e Diodato Caputi, con Oscarino Iafrate, con Ivo
detto il Seghino e con Ottavio Stampellaro, avevamo formato la
piccola mandra dei cavalli di Ieppo ed eravamo praticamente
inseparabili. Perché ci chiamassimo così io non l'ho mai saputo
(anche se in seguito ho imparato che il nostro desiderio di
vagare come cavalli non domati era una fantasia metamorfica
che rivelava il nostro bisogno di libertà e di scorreria nei
territori della nostra adolescenza) ma i cavalli di Ieppo stavano
sempre insieme, la mattina a scuola, il pomeriggio in giro per la
campagna o a Colle Ultimo, dove erano diventati la squadra da
battere, e anche la notte, sotto la casa di mio nonno, dove io
raggiungevo gli altri dopo aver finto con mia madre di essere
andato a letto.
 
 

 Tuttavia, Stampellaro Oscarino e Ivo il Seghino non
sempre erano presenti alle nostre riunioni, il primo perchè
aveva le gambe atrofizzate dalla poliomielite (che, però, non gli
impedivano di partecipare alle nostre scorrerie e solo per
superare qualche muro o dislivello ce lo dovevamo caricare
sulle spalle), gli altri due perché erano già costretti talvolta a
lavorare. Io e Diodato, invece, vivevamo praticamente insieme
(lo trovavo sempre fuori di casa mia ad aspettarmi) e il nostro
sodalizio era  sancito da un vero e proprio patto d'amicizia che
consisteva nella  reciproca promessa di  agire sempre l'uno in
funzione dell'altro e di non separarci mai nella vita (come primo
impegno concreto avevamo diviso la proprietà del mio coltello
che reggevamo un giorno per uno), anche se Stampellaro ci
diceva di non farci illusioni perché, alla fine del tempo della
scuola, Diodato avrebbe iniziato la sua vita di lavoro mentre io
sarei sparito all'orizzonte, andando a continuare gli studi in città
presso qualche parente o in qualche collegio. Io non ci credevo e
comunque non pensavo a un futuro così lontano (una volta,
però, io e Diodato passammo un intero pomeriggio a piangere al
pensiero che, crescendo, ci saremmo separati diventando
diversi), mentre invece mi dava fastidio che nelle nostre
riunioni notturne sotto la casa di mio nonno non si parlasse che
di sesso e che Diodato, non potendo farlo con me, continuasse
con Oscarino i giochi sessuali cominciati chissà da quanto e che
consistevano in ripetuti spettacoli di scoppaculo  vicendevole. In
relazione a queste esibizioni, Diodato ed Oscarino avevamo
cominciato a chiamarli coi soprannomi di Pìrito e di Pùrito, due
varianti locali dello stesso termine indicante un peto (e Pìrito, al
tempo del mio catechismo, lo prendevamo in giro chiamandolo
anche Santo Pìrito o Pìrito Santo) ed erano due nomi così
azzeccati che, mentre tra noi suscitavano ricorrenti crisi di
ilarità che duravano ore, sono rimasti loro addosso anche tra gli
estranei al nostro gruppo che non ne sospettavano l'origine.
 
 

 Di Pùrito, purtroppo, fummo presto costretti a non parlare
più perché, ammalatosi durante l'inverno, in primavera morì
(facevo la quinta elementare e fu il secondo morto che vedevo
in vita mia) ma erano loro i miei amici carnali  e per loro io ero
entrato in guerra con mia madre e con mio nonno i quali, vista
la piega che avevo preso, continuavano a minacciare di
mettermi in collegio mentre in realtà si erano rassegnati ad
aspettare che io prendessi la licenza elementare per sottrarmi
all'influenza di quelle cattive compagnie (in seguito ho capito
che era stata proprio questa rassegnazione la loro carta vincente
perché, pur non volendolo ammettere a parole, io avevo finito
per fare, in cambio delle mie presenti avventure, la tacita
promessa che avrei continuato a studiare e che il mio sodalizio
con Pìrito sarebbe finito con le scuole elementari). Ma fu con
quegli amici che nacquero tutte le mie curiosità e fu in quegli
anni che ebbe inizio la mia attesa sessuale, destata dai discorsi
sulla maestra Vento, dai giochi di Pìrito e di Pùrito e dalle
masturbazioni collettive iniziate da Stampellaro che amava
esibire il suo grande sesso eiaculante di ragazzo cresciuto.
 
 

 La mia attesa, però  non mi dava alcun problema, perché
io preferivo di gran lunga le scorrerie nelle campagne del paese,
dal lago Lucciola alle Prime Grotte vicino ai boschi di Monte
Rovere e le soste in una località chiamata Porto  dove, sotto un
boschetto di quercioli e di sambuchi, che crescono sul terreno
roccioso e sono sempre pieni di canti di uccelli, c'è una piccola
sorgente a cui i cavalli di Ieppo andavano ad abbeverarsi. Porto
era il nostro traguardo soprattutto d'estate, anche perché nelle
vicinanze, sul costone delle Prime Grotte, si attendavano due
strane zingare che leggevano la sorte e con cui noi non
vedevamo mai nessuno, pur essendo sicuri che si guadagnavano
da vivere anche facendo le puttane. Erano due sorelle (dicevano
di ottima famiglia) dai capelli tinti e dai vestiti colorati, la faccia
truccata e le labbra rosse sui  pochi denti, che tutti chiamavano
le Fate e che, vedendoci alla sorgente di Porto dove venivano a
lavare i loro panni e a rifornirsi d'acqua, credevano di
scandalizzarci prima orinando con le gambe allargate senza
sollevare la gonna né chinarsi, e poi sedendosi scosciate per
mostrarci il sesso, che ci appariva boschivo e cavernoso come un
paesaggio in miniatura. Noi le guardavamo tra eccitati e schifati,
ma un giorno, all'improvviso, decidemmo di punirle tirando un
sasso con la fionda proprio all'imbocco della voragine della fata
più anziana e Pùrito fece centro al primo colpo, suscitando le
urla disumane della donna e le orribili maledizioni contro di noi
che dovemmo darcela a gambe e non farci più vedere a Porto.

 

 Solo l'anno appresso tornammo a parlare con le Fate e,
dopo aver chiesto che ci leggessero la mano, non esitammo a
fare la richiesta di un rapporto pubblico tra una di loro e
Stampellaro che, con nostra grande sorpresa, fu accettata. A
ritirarsi dalla prova fu Stampellaro (per la timidezza quasi
svenne, sorprendendoci tutti), ma in quell' occasione fui proprio
io a perorare la causa e anzi fui protagonista di un duello di
parole con la fata più anziana che, ci disse, aveva studiato
all'università, aveva visto in faccia l'ingiustizia degli uomini e,
per non sporcarsi le mani, aveva preferito fare la barbona.
L'inizio di quel duello di parole era stato pesante e, infatti, lei mi
aveva chiamato «figlio di puttana» quando aveva saputo che io
non conoscevo mio padre, ma io  prontamente avevo alzato il
tono rispondendo, prima, che «il bove dice sempre cornuto
all'asino» e, poi, che «quando si miete le puttane filano» (mia
madre stava mietendo, visto che era il tempo della mietitura,
mica filando come loro due). La fata allora, ammirando la mia
parlantina, aveva osservato che io ero adatto a galleggiare come
un sughero su qualunque acqua e, quando io le risposi che era
meglio essere sughero che stronzo (che pure galleggia), lei,
incredibilmente, mi aveva predetto che un giorno sarei andato a
Roma a raggiungere mio padre, che sarei divenuto importante
più di lui e che per questo avrei avuto la stessa sorte di Teseo
(io allora non capii ma questo soprannome mi rimase addosso
per tutto il tempo che ho vissuto a Tricastro).
 
 

 Di quel diverbio con le fate (e soprattutto del sasso
scagliato tra le gambe della fata più anziana)  noi ci vantammo
lungamente ma l'episodio  era avvenuto quando già da tempo
avevamo preso la decisione di contrapporci alle ingiustizie,
usando senza paura gli stessi metodi usati per compierle, e
avevamo dato inizio alle imprese della nostra infanzia. Tutto era
cominciato una mattina di quella stessa estate, quando
assistemmo senza la forza di reagire a un episodio di violenza
che ci aveva impressionati. Quella mattina, al lago Lucciola, noi
per caso avevamo incontrato Benito e Vittorio (due gemelli  del
Primo Colle noti coi soprannomi di Il Duce e il  Re) che gettavano
in acqua il loro cane (che si chiamava Tella). Il cane aveva
sempre raggiunto la riva a nuoto e, non capendo le intenzioni
dei padroni, era sempre tornato ad accucciarsi ai loro piedi
scrollandosi l'acqua di dosso rumorosamente. «Ma che cazzo gli
state facendo a questo cane», avevamo detto noi arrivando e
quei due stupidi del Duce e del Re ci avevano risposto di essere
venuti ad annegare un cane a cui non potevano più dare da
mangiare. «L'ha detto nostro padre», avevano concluso, «per
Tella non c'è più pane a casa nostra». Noi, allora, li avevamo
presi in giro, ripetendo la storiella che, per continuare a
ubriacarsi, il loro padre aveva dilapidato anche il sussidio avuto
dal governo  perché aveva messo ai figli i nomi di Mussolini e di
Vittorio Emanuele III, ma non avevamo potuto continuare
perché si era intromesso Matto Sinni che si trovava là vicino e
che nessuno di noi aveva visto. Matto Sinni si era avvicinato con
un sorriso che in seguito avrei imparato a definire sinistro e
aveva detto ai due fratelli che non sarebbero mai riusciti a
uccidere quel cane ma che, se volevano, poteva farlo lui,
sparandogli col fucile da caccia. Il Duce e il Re, per farci dispetto,
avevano subito accettato e a noi era mancata la forza di opporci
a Matto Sinni di cui si vociferava che aveva ucciso un uomo e ne
aveva fatto scomparire il cadavere in modi fantasiosi e terribili.
Io, fino a quel momento, non avevo creduto a quelle storie a cui
invece Pìrito credeva ciecamente, ma ora mi spaventava la
taciturna truculenza di Matto Sinni che, la lunga barba rossa
sotto il cranio calvo e l'aria buia sopra il corpo massiccio, mi
metteva tanto in soggezione da togliermi la parola, mentre mi
appariva carico di verità il proverbio che su di lui si ripeteva a
casa mia e che diceva: «da pelo rosso e pelo caffè, libera nos
dominè». Matto Sinni, comunque, sbagliò i suoi calcoli e sparò
due volte, la prima con una cartuccia piccola i cui pallini fecero
uscire solo un po' di sangue dal muso spaventato del cane (che,
invece di fuggire, si accucciò leccandosi ai piedi di Benito e di
Vittorio), e la seconda con una cartuccia grande che aprì un buco
nel fianco di Tella il quale, lo sguardo stanco più che disperato,
esalò in silenzio l'ultimo respiro.

 

 Io feci in tempo a vedere il sadico sorriso di Matto Sinni
prima che il suo sguardo sfidasse il mio che lo fissavo inorridito,
ma fu a partire dal momento in cui egli se ne andò e Benito e
Vittorio si misero a seppellire il cane che io cominciai a pensare
al modo di fargliela pagare. La mia indignazione era talmente
sincera che riuscì a convincere  anche Pìrito e Pùrito (mi pareva,
e lo dissi, che se avessimo subìto adesso  avremmo poi subìto
sempre e la nostra vita non avrebbe avuto senso) ma, poiché
loro avevano capito che io volevo dare una lezione al Duce e al
Re, quel giorno stesso, a Porto, fui costretto a inventarmi il
principio generale secondo cui, se noi non dovevamo mai far
prepotenze a nessuno, non  dovevamo mai nemmeno sopportare
quelle fatte a noi e nemmeno quelle fatte alla nostra presenza.
Li convinsi, perciò, a vendicare la morte di Tella contro Matto
Sinni, sebbene l'episodio avesse reso credibili le voci su di lui e
sebbene la nostra prima impresa rischiasse di essere anche la
più difficile. Battere Matto Sinni era, infatti, oggettivamente
complicato ma io riuscii a trovare la maniera di far scattare la
vendetta quando seppi da Pìrito che Matto Sinni teneva sempre
legata una capra sullo spiazzo di Colle Ultimo, accanto al dirupo,
e quando scoprii  che, in quei mesi d'estate, lui passava quasi
tutto il giorno in montagna dove possedeva delle terre.  Poiché,
quando andava alle sue terre della Cesa (così si chiamava un
pianoro a oltre mille ottocento metri di altezza sul mare) Matto
Sinni tornava a notte fonda e solo in quel momento  rimetteva
la capra dentro lo stalluccio nel cortile fortificato della casa, noi
decidemmo di far fare a quella capra la stessa fine che aveva
fatto il cane Tella. Di tentativi ne facemmo tre, i primi due
interrotti all'ultimo momento per paura, ma la terza volta,
raddoppiando il guasto per la vergogna di apparire vigliacchi
l'uno all'altro, a Matto Sinni prima gli rovinammo un campo di
zucche, aprendo a tutte una finestra col mio coltello come se
fosse una prova di quelle che si fanno per vedere se il cocomero
è maturo, e poi, preso coraggio (attorno al castelletto non c'era
nessuno ma non era ancora buio e la tremarella era indomabile),
io Pìrito e Pùrito gli sfrenammo il carretto parcheggiato lungo il
muro di cinta della casa, legammo a una stanga quella capra e
facemmo precipitare carro e capra nel burrone senza nemmeno
fare troppo sforzo. Matto Sinni, più per le zucche che per quella
capra, infuriò per settimane, compiendo indagini per sapere chi
doveva scannare, come amava dire a tutti e come disse anche a
noi che però avevamo avuto il coraggio di continuare la nostra
solita vita e lo potemmo guardare negli occhi, rispondendo che
nemmeno capivamo che diceva. Però ogni notte, sotto la casa di
mio nonno, noi facevamo festa con canti e balli e, per la prima
volta, con bottiglie di vino prese di nascosto alla cantina di Ivo.
 
 
 
 

8
 
 
 

 Dopo questa impresa ne facemmo molte altre, sia
combattendo gli animali, ad esempio una volpe con la rabbia, la
mula pazza di Eugenio, o le piche di  Giovanna che ci portarono a
scoprire  il nascondiglio  degli oggetti  rubati (tra cui anche un
orecchino di mia madre lungamente cercato),   sia combattendo
contro le persone, come ad esempio i ragazzi di Frattura che
facevano pagare il pedaggio nei boschi alti di Monte Rovere (fu
una lotta che durò due anni), o il nipote di Giacinta che
pretendeva sempre che gli si cedesse il passo (la smise quando
gli pisciammo  per la terza volta dentro il secchio del latte che
vendeva). Furono tutte imprese che io compii con i miei amici
carnali,  esplorando tutto il territorio di Tricastro ma,  nel tempo
delle scuole elementari io di imprese ne ho compiuta un'altra
tutta da solo, cominciata per caso e tenuta lungamente segreta.
La mia impresa cominciò fortuitamente, nel primo giorno di
scuola della quinta  elementare, mentre mi giravo con vivacità
su me stesso nel corridoio durante la ricreazione, quando il
dorso della mia mano urtò nel sedere di una mia compagna di
scuola. La ragazza era Nunziatina Sinni e il contatto, pur rapido e
casuale, non mi impedì di sentire con un brivido di delizia il
morbido di tutte e due le natiche. Io volevo far finta di niente
(per la casualità del contatto, non certo  per paura di offendere
più gravemente suo padre), ma Nunziatina si voltò di scatto
verso di me, assumendo un'aria di severo rimprovero mentre
arrossiva violentemente, sebbene tutti e due rimanessimo
silenziosi, in qualche modo già convinti che era inutile stare a
discutere sulla volontarietà o meno del mio gesto e che invece
era assolutamente necessario non far accorgere nessuno di ciò
che era accaduto tra di noi. Io, per mio conto, non lo dissi
nemmeno a Pìrito ma l'argomento con cui cercavo di tacitare il
mio rimorso per la reticenza  nei confronti del mio amico più
carnale (e cioè che non avevo niente da dire perché non era
successo niente), io lo sapevo falso perché, al contrario, col
rossore di Nunziatina l'episodio per me era divenuto importante
e, pur senza parlare, io avevo cominciato a guardarla in modo
diverso e a trovarla attraente.
 
 

 Avevo addirittura cercato di vederla fuori della scuola e,
quando passavo davanti alla casa di Matto Sinni senza osare di
fermarmi, speravo sempre di vederla alla finestra dello
stalluccio dove l'avevo vista la prima volta che ero salito a Colle
Ultimo e dove invece non la vedevo più. L'avessi rivista allo
stalluccio, mi sarei fermato per parlarle ma lei, da quando era
morta sua madre, viveva di fatto sequestrata ad accudire il
padre e per tutto l'anno io mi ero dovuto contentare di vederla
a scuola, dove stavamo sempre fra gli altri ed era impossibile
parlare ma dove trovai molte altre volte l'occasione  di rifare
consapevolmente il gesto casuale che aveva originato i miei
pensieri. La prima volta che lo rifeci ne ricevetti in cambio un
pizzico che mi fece quasi urlare dal dolore ma anche stavolta
Nunziatina non denunciò a nessuno l'accaduto e io, riflettendo
molto su questo suo comportamento, mi sentii sostanzialmente
autorizzato a ripetere il mio gesto, pur vergognandomi molto
della mia sfrontatezza (ma trovando nella mia determinazione la
forma poi ineguagliata della mia eccitazione sessuale). Di queste
mie esperienze con Nunziatina Sinni io non dissi nulla a nessuno
ma esse influenzarono decisamente le mie fantasie erotiche che
diventarono un fatto privato che a nessun costo potevo più
socializzare. Anzi io cominciai a infastidirmi quando i miei amici
si eccitavano descrivendo le grazie della maestra Vento e, anche
se continuavo a essere interessato a quei riti, non riuscivo a non
provare rimorsi se pensavo di legare il nome e il corpo di
Nunziatina a quelle rozze e volgari fantasie.
 
 

 Quando l'estate appreso, nel l949, prendemmo la licenza
elementare, con Nunziatina non  avevo mai parlato di noi due
ma non era passata settimana che io, almeno una volta, non
fossi riuscito a toccarle il sedere anche se, talvolta, mi pareva
che lei per questo serbasse una muta ostilità nei miei confronti.
Invece, in primavera, al funerale di Pùrito cui avevamo
partecipato tutti noi studenti delle elementari, c'era stato fra noi
un episodio pubblico di tenerezza che mi aveva rassicurato sulle
sue intenzioni. A quel funerale io ero andato sconvolto perché,
se Pùrito non era il primo morto che vedevo, la vista del suo
corpo consumato dalla febbre e la sua testa rimpiccolita e quasi
annullata dalla magrezza mi avevano dato per la prima volta la
coscienza della morte anche per noi ragazzi. Inoltre, la baracca
in cui era vissuto e che  io  vedevo per la prima volta (una
spoglia  stanza  di legno, senza  servizi e senza un vero letto,
dove filtrava il vento dell'esterno e dove Purito giaceva nella
cassa ancora aperta  appoggiato sulla nuda terra), mi aveva
riempito di orrore facendomi scoprire dove  vivevano anche
Pìrito, Rosetta Grossi e tanti altri miei compagni di scuola,
mentre il padre di Pùrito, inginocchiato accanto al figlio ripeteva
che non sapeva con chi prendersela per la sua disgrazia. «Che
vuoi fare», diceva toccando le mani ceree del figlio, «la nostra
sorte è come il Lago Lucciola, c'è e non c'è, ti dà e ti toglie senza
chiedere il permesso».  Io ero rimasto sconvolto e,  per la strada
del cimitero, al contrario di Pìrito e di Ivo che sapevano
rimanere impassibili e di Stampellaro che ostentava un riso
forzato, non badavo più a niente e lacrimavo per disperazione
quando  Nunziatina mi si era avvicinata e mi aveva stretto le
mani baciandomi le guance, timida e coraggiosa. Io, vedendola
alta tra le mie lacrime, le avevo sussurrato «mi vuoi?», subito
convinto che di quei due baci sulle guance  non mi sarei mai più
dimenticato ma  l'occasione di sentire la sua risposta non si
ripresentò e quel mio toccarle il sedere  rimase il nostro unico
colloquio. Agli esami di licenza elementare, quell'anno, non ci
furono bocciati e io risultai essere il primo, davanti a Rosetta
Grossi e a Nunziatina che, lo scoprii allora, aveva un anno più di
me. Si diplomò in quell'anno anche Pìrito che di anni più di me
ne aveva due e con lui passai ancora molto tempo di quell'estate
che per me fu piena di sentimenti enfatici e di vere e proprie
depressioni, consapevole come ero che la mia infanzia finiva ed
che in autunno avrei lasciato Tricastro per trasferirmi ad
Aquila, a continuare gli studi presso certi parenti che non
conoscevo.
 
 

   Guardavo ogni angolo e ogni persona con un' attenzione
mai provata in passato, mi commuovevo ogni momento e poi
rimanevo immobile in una prostrazione fisica che mi impauriva
ma le  mie tristezze non dipendevano dal mio sentirmi alla
vigilia di un drammatico abbandono (né dalla fine del mio
sodalizio con Pìrito) bensì dalla nostalgia di Nunziatina che non
riuscivo più a vedere nemmeno da lontano, mentre mi rendevo
conto di non ricordarmi più la sua espressione e mi struggeva il
desiderio del contatto con le sue carni. Mi ero ridotto a girare
senza meta e senza scopo ma, per fortuna, a dare una svolta alla
mia estate fu Pìrito il quale, non volendo capire che la
prospettiva di smettere di studiare per rimanere a Tricastro non
mi interessava più, continuava a tormentarmi con le sue
richieste  e voleva a tutti i costi compiere  la prova che
decidesse per noi il nostro futuro. Di quella prova avevamo
parlato molto spesso e io credevo che non l'avremmo fatta  mai
perché  bisognava attraversare  fino in fondo il  canalone dietro
il lago Lucciola, girare attorno al  bosco di cipressi fino alle
pietre a forma di cilindro e penetrare nelle  Grandi Grotte dove,
se invocato con le parole giuste,  compariva  il diavolo  e dove,
dunque, entrava solo  chi aveva il coraggio di vedere il suo
destino. Pìrito però fu  insistente in modo tale (mi parlava serio,
tutto compreso nella parte) che alla fine  accettai e, nel giorno
del mio undicesimo compleanno, oltrepassato il lago Lucciola, io
e Pìrito  scendemmo nel canalone deserto e, dopo un lungo
cammino, entrammo nelle Grotte. Pìrito era diventato silenzioso
e io, invece, per la prima volta, gli parlai di Nunziatina
chiedendogli addirittura di aiutarmi a rivederla ora che, con la
scuola,  si erano chiuse anche le occasioni di chiederle un
appuntamento. Forse, con queste mie parole, io avevo violato la
consegna di parlare  di cose irrilevanti (mi aveva detto che così
era richiesto dalla prova), ma è certo che col mio discorso diedi
a Pìrito il colpo di grazia perché lui, già spaventato e circospetto,
alla mia richiesta di aiuto finì per terrorizzarsi. «Ancora non ti è
bastato», mi disse, «quello è Matto, per la figlia ti ammazza con
tua madre e con tuo nonno», ed era così atterrito che a un
rumore (del resto enigmatico) che si  produsse nella grotta, la
sua paura diventò indomabile panico e,  pallido e senza voce,
Pìrito tornò indietro a passi sempre più rapidi perdendo la
prova che era appena al suo inizio.
 
 

 La sua fuga, però,  mi impegnò ad andare avanti, anche se
il rumore che aveva spaventato Pìrito non aveva chiarito né la
sua natura né la provenienza, e io avanzavo cauto, preoccupato
soprattutto per i miei piedi che, nella mia tenuta estiva,
risultavano poco protetti dai sandali aperti che portavo. E però
continuavo ad avanzare, incoraggiato dal mio coltello e stupito
che la grotta non fosse buia come mi ero immaginato ma
illuminata da una scura luce  che non vedevo da dove
provenisse. «Fatti vedere, e uno», dissi allora, pronunciando con
lunghi palpiti di ansia la formula datami Pìrito. Non successe
nulla ma, dietro un sasso della grotta, si materializzò un
cadavere fatto a pezzi  (io supposi che fosse l'uomo ucciso da
Matto Sinni che nessuno aveva mai trovato ma quelle povere
ossa potevano anche essere  di un animale) che non mandava
odore e che io evitai girando attorno a una grossa pietra.
Continuavo ad avanzare con lenta precisione tra  sassi e  tronchi
d'albero che mi  sembravano segati (ero astratto in una interna
sospensione che mi impediva di osservare riflettendo) ma, più
che muovermi in una qualche precisa direzione, compivo giri
circolari mentre continuavo a brandire il mio coltello con la
lama e il punteruolo bene esposti alle due estremità e recitavo
in forma di scongiuro tutte le preghiere che mi aveva insegnato
mia madre. «Fatti vedere, e due», dissi lentamente e, appena la
mia voce si fu dissolta, nella grotta apparve la figura atticciata
di Matto Sinni che sistemò tra i tronchi un carico che si portava
sulle spalle e si fermò chinandosi più volte a guardarsi intorno
ma senza mostrare di vedermi. Io rimasi immobile ma, pur
temendo che con quei connotati mi era apparso il diavolo (per
spaventarmi dei miei pensieri su Nunziatina?), guardavo Matto
Sinni  senza vera paura  convinto che la sua immagine era falsa
o che, se era reale,  lo avevo solo scoperto nel  suo ripostiglio
per il contrabbando di legname. «Fatti vedere, e tre», dissi
aspettando ancora qualche secondo prima di tornare verso
l'uscita convinto di aver portato a termine la prova.
 
 

 Fuori, Pìrito, accalorato a spiegarmi che aveva perso la
prova solo perché io non avevo rispettato le regole parlandogli
di me e di Nunziatina, non seppe dirmi se era passato là davanti
Matto Sinni, ma anch'io ero distratto e a Matto Sinni non
pensavo più, tutto immerso nei pensieri nuovi che la visita nella

grotta mi aveva messo nella testa.  Penetrando  nella grotta, io
ero sicuro di avere esplorato proprio il culo della realtà e capivo
ora fino in fondo mio nonno quando diceva «non tengono i
pensieri», perché ciò che avevo pensato di Tricastro (e anche di
mia madre, di mio nonno o di Pìrito), aveva perso ogni
significato e apparteneva a un tempo che per me era finito.
All'improvviso mi ritrovavo a disprezzare la vita che potevo
fare a Tricastro, adatta forse a Pìrito, superstizioso e rassegnato,
ma  non a me che,  a undici anni, ero già pieno di bisogni e di
mancanze che non sapevo chiarire ma che Tricastro non poteva
soddisfare.  Ormai sapevo di voler studiare  per uscire dal paese
(con buona pace di mio nonno, non volevo passarvi tutta la mia
vita) e mi rendevo conto che mi mancava solo l'esperienza di un
incontro con Nunziatina che, perciò, ero deciso a procurarmi,
impiegando in questa ultima  impresa la mia estate, senza
paura  di suo padre che  a Tricastro era forse l'incarnazione del
diavolo ma che io nella grotta avevo ridotto a misero
contrabbandiere di legname.
 
 
 
 
 

9
 
 
 
 

 Cominciai perciò ad aggirarmi presso la casa di Matto Sinni
sebbene, per prudenza (le povere terre della Cesa si coltivavano
solo ad anni alterni e lui, quell'anno, non ci andava mai), io mi
muovessi con estrema cautela e solo nelle ore in cui non dovevo
vedermi con Pìrito, che non gradivo più completamente e che,
anzi, mi rendeva triste col suo continuo tentativo di scaricare su
di me la sua paura nella grotta, come se io gli avessi parlato di
Nunziatina solo per spaventarlo e vincere  la prova. Nei miei
appostamenti dalle parti della sua casa io, Matto Sinni, lo vidi
spesso nei suoi panni stinti di contadino affaticato e niente
affatto diabolico, però non vidi mai Nunziatina e, anzi, mi resi
conto che, se non si fosse affacciata alla finestra dello stalluccio
o se non fosse uscita per strada, io non avrei comunque potuto
vederla perché la casa  di Matto Sinni (una bassa costruzione a
forma di capanna dietro il muro di cinta del cortile, con sul
burrone un castelletto che si ergeva  proprio come la vela di una
barca) non aveva finestre o feritoie sulla via di Colle Ultimo.
Decisi allora, in quei primi giorni di agosto, di andare a guardare
la casa dall'altra parte della valle, al di là del ponte sul fiume
Sagittario, per cercare di farmi notare da Nunziatina se, da quel
lato,  il castelletto aveva qualche finestra.
 
 

 Nel sopraluogo che feci, il punto che mi sembrò più idoneo
era il così detto Prato di Lago Lucciola, l'unico campo praticabile
ai bordi delle rive dove io ero già stato mille volte senza mai
notare che, di Tricastro, si vedeva quasi solo il castelletto di
Matto Sinni. Perciò, contate ben sei finestre, tutti i pomeriggi io
presi a tornare al Lago Lucciola, muovendomi sul Prato come se
facessi ginnastica o mi allenassi per la corsa della festa di San
Domenico ma, in realtà, per attirare gli occhi di Nunziatina e
farla affacciare a una finestra. La mia trovata fu coronata dal
successo più completo perché fin dal secondo giorno  Nunziatina
cominciò ad attardarsi alle finestre (rimanendo a lungo dietro
ai vetri, per vedermi e farsi vedere) mentre io gesticolavo per
lei e prendevo, da questa prima risposta positiva, un potente
incoraggiamento a proseguire nel mio tentativo di approccio.
Come seconda mossa, infatti, decisi di scrivere un biglietto  che,
a scanso di complicazioni, non avrebbe avuto né firma né
indirizzo, e di consegnarlo nelle  mani di Nunziatina durante la
festa di San Domenico quando, sicuramente, sarebbe venuta fino
in chiesa con la processione. Scrissi perciò un messaggio,
lungamente pensato e riscritto quasi ogni giorno che diceva così:
«A metà settembre parto con le rondini e non so quando torno.
Dopo cena, dove mi vedi di giorno, ti aspetterò fino al 10
settembre. Poi, verrò a bussare alla finestra del tuo stalluccio.»
 
 

 Quell'anno, la festa di San Domenico fu celebrata con
sfarzo inusuale, affollata da gruppi di compaesani tornati da
ogni parte del mondo, da torme di giovani venuti a piedi dai
paesi vicini e da uno stuolo mai visto di pannoccini. La
processione fu imponente ma Nunziatina riuscii a vederla solo
all'ultimo momento mentre seguiva con la candela accesa in
mano la statua del Santo, in fila con le altre ragazze del paese.
Malgrado la decisione che mi sentivo dentro, era assolutamente
impossibile avvicinarla senza essere notati ma, per fortuna, al
momento del rientro in chiesa  (sulla porta c'era una ressa
incredibile), mentre le campane  martellavano sulle nostre teste,
la banda  suonava  sul sagrato e, sotto le navate,  l'organo
spandeva dappertutto le sue note, fingendo di uscire dalla
chiesa mentre tutti vi entravano, io potei scontrarmi con lei che
non si sottrasse all'impatto e non rifiutò il mio biglietto (lo
strinse in mano senza reazioni né rossore né sguardi d'intesa).
Io l'avevo aspettata fuori già pieno di speranze e invece non
ebbi neppure la possibilità di incrociare il suo sguardo,  perché
lei tornò subito a Colle Ultimo in compagnia di persone adulte
che io non conoscevo, camminando a testa bassa con una
determinazione che mi allarmò perché mi parve un rifiuto
preventivo a ogni mia proposta.  La sua scomparsa  mi rese
depresso ed estraneo al clamore della festa ma, fin dal giorno
successivo, io cominciai a mettere regolarmente in atto il mio
piano e ogni sera andavo al lago Lucciola dove Nunziatina non
venne mai, anche se ogni sera mi dava nuove ragioni per
sperare facendosi vedere alla finestra illuminata e ripetendo più
volte questa scena per non farmi stare a cielo aperto ad
aspettarla inutilmente.
 
 

 Arrivò così il dieci settembre e portare a termine il mio
piano diventò più difficile e azzardoso perché, a dire il vero,
sostare al buio vicino alla casa di Matto Sinni mi metteva paura.
Il tempo si era messo a piovere e l'estate dava chiari segni della
sua morte. Le pere spadone erano state tutte colte, si procedeva
alla semina del grano e le rondini ogni sera si davano
appuntamento sui cornicioni dell'edificio scolastico, riunendosi
insieme ed aspettandosi prima di migrare. Io sarei partito il
sedici settembre, insieme con mia madre che mi accompagnava
per sistemarmi, ma, pur avendo solo pochi giorni, decisi di
essere molto cauto e di impiegare i primi quattro giorni  al mio
appostamento solitario e il quinto e ultimo a un addio pubblico,
con visita a tutti i miei compagni delle elementari e quindi pure
a Nunziatina. Nei primi quattro giorni, comunque, io mi sarei
diretto verso Colle Ultimo dopo cena, massaggiandomi il ventre
come se avessi mal di pancia e mi sarei appostato tra le pietre
nei pressi del castelletto di Matto Sinni come se fossi andato a
fare i miei bisogni. Avrei aspettato nell'ombra per circa
mezz'ora controllando da lontano la finestra dello stalluccio e
poi, ancora facendo finta di sistemarmi i pantaloni, mi sarei
rimesso sulla strada del ritorno costeggiando il muro di cinta
della casa, passando accanto allo stalluccio e spingendo la tavola
che fungeva da persiana per vedere se era aperta. Fin dalla
prima sera però io ebbi quello che cercavo e non ci fu bisogno di
nessuna finzione perché già al primo momento vidi che la
finestra dello stalluccio era aperta e che Nunziatina mi stava
aspettando. La strada era deserta e già buia, mentre io mi
apprestavo a parlare da uomo a una donna (il cuore, per la
paura e l'emozione, mi balzava in petto e il sangue mi batteva
nelle tempie), ma quando fui davanti a quella finestra
piccolissima feci quello che nessuno avrebbe fatto a Tricastro e
prima con la testa e poi  col  corpo  mi introdussi  in quel nero
stalluccio appoggiandomi  e facendomi tirare da Nunziatina.
 
 

 Come fui dentro mi colpì la puzza e mi fece sobbalzare il
movimento scomposto di una capra che stava con noi (ne
riconobbi le corna), ma era il battito affrettato dei nostri cuori a
riempire di rumore quell'ambiente minuscolo dove inizialmente
io e Nunziatina ci abbracciammo per paura. Subito dopo, mentre
mi abituavo al buio ma non mi calmavo, volli di nuovo  palparle
il sedere e anzi decisi di toccarlo senza più il diaframma della
gonna e addirittura senza quello delle mutandine. «Parla,
prima», mi disse Nunziatina ma io, mentre eccitato le baciavo la
faccia e anche la bocca, stavo pensando per la prima volta di
toccare anche  il suo davanti   che,  liscio e senza peli,  diede il
coraggio anche a me di denudarmi, mettendomi addosso un
desiderio  dolce ed imperioso, quale  non ho mai più sentito  per
nessuna donna. Io mi accostai fremendo ma, come lei me lo
permise e io estasiato sentivo confusamente le sue parole (mi
diceva che ci stavamo sposando), la porta dello stalluccio
barcollò sotto la spinta poderosa di Matto Sinni che  non poté
entrare solo perché Nunziatina aveva messo un paletto
trasversale che si spostò  un poco, battendomi contro la schiena,
ma resisté  anche al secondo colpo. Io, senza sapere se avevo
veramente fatto l'amore e senza sapere nemmeno come avevo
fatto ad uscire da quella finestrella, mi ritrovai in un attimo
fuori nella strada che correvo a perdifiato verso casa mia,
preoccupato fino al terrore per quello che Matto Sinni  poteva
farmi  se  aveva scoperto tutto (e anche per quello che poteva
fare a Nunziatina). Da Tricastro partii poi il venti settembre
invece del sedici  perché quella stessa notte mi venne la febbre
(non uscii più di casa se non per partire) e in quei giorni di letto
e debolezza non vidi Pìrito che si era messo a lavorare alla
bottega di Lenìn, non vidi la partenza delle rondini come in tutti
gli anni precedenti ma non sentii neppure una voce su Matto
Sinni e su sua figlia Nunziatina.
 
 
 
 
 

10
 
 

 

 Ad Aquila, in casa degli zii Letterio (cugini di mio nonno,
erano marito e moglie e si somigliavano come due vecchi gatti)
io passai sei anni di non vita perché nessuno dei miei bisogni
senza nome fu soddisfatto e fui costretto a convivere con le mie
mancanze impiegando tutto il tempo a studiare. Di tutta quella
scuola, però, non mi ricordo né compagni né insegnanti, se si
eccettua il professore di latino e greco del liceo, che mi è rimasto
nella memoria  solo perché venne in gita a Tricastro, si spaventò
a morte quando la barca sul Lago Lucciola cominciò a fare acqua
e io non potei fare a meno di notare la sua vigliaccheria
ricordandomi le sue citazioni da  Cicerone e il suo continuo
straparlare de tolerando dolore  o, addirittura, de contemnenda
morte . Di quel tempo mi ricordo bene i viaggi sulla corriera
azzurra che si arrampicava sui monti e discendeva nelle valli
illudendo ogni volta di essere arrivati e deludendo ogni volta,
mentre il traguardo si raggiungeva all'improvviso ed era così
insignificante che, non appena conquistato, mi coglieva il
rimorso di averlo tanto inseguito con i miei pensieri da  non
osservare con la dovuta attenzione il trascolorare dei boschi o
l'aspetto degli innumerevoli paesi che si incontrano nel percorso
e che, come Tricastro, rendono frastagliata la cima dei colli su
cui sorgono. Entravo nella casa degli zii Letterio o in quella di
mio nonno che chiamavo mia e, appena entrato, sospiravo il
momento di ripartire ripercorrendo all'indietro la strada appena
fatta di cui, per altro, amavo solo i  chilometri che  risalgono
tortuosi le Gole del  Sagittario e che sboccano nella pianura di
Tricastro, verde per le acque  del Lago Lucciola e per la distesa
di erba medica che arriva a crescere perfino tra le pietre dei
muretti a secco. Arrivando a Tricastro, la prima casa che si vede
dalla strada provinciale è quella di Matto Sinni (che è poi
l'ultima che si può raggiungere in realtà poiché la strada tocca
solo il Primo Colle con la casa di mio nonno)   e io, per sei anni,
partendo o ritornando, ho sempre guardato quella casa senza
più vedervi Nunziatina alla finestra, e ho finito per non sapere
più se l'episodio dello stalluccio era stato reale o immaginario,
anche se le mie fantasie sessuali, specialmente a partire dai miei
tredici anni quando si compì la mia pubertà,  tornavano sempre
a soddisfarsi rievocando l'emozione (rimasta ineguagliata) che
avevo provato toccando Nunziatina.

 

 Comunque, non mi sentivo più a mio agio nemmeno a
Tricastro e vi passavo estati solitarie e malinconiche, chiuso  in
casa a leggere quasi tutto il giorno, senza più tentare di vedere
Nunziatina e senza più sapere niente dei miei vecchi amici
carnali  (salvo che Stampellaro lavorava da sarto alla bottega di
Cesidio e che Pìrito aveva lasciato la bottega di Lenìn e si era
messo ad imparare il mestiere di meccanico). Né mi trovavo
meglio in casa degli  zii Letterio dove, fin dal primo giorno, mi
chiudevo in camera mia a leggere e studiare, finendo tutti i libri
della biblioteca scolastica e attaccando quelli della biblioteca
comunale. In sei anni di attesa, intrisa di infelicità, io ho letto
molto, seduto al tavolo o sdraiato sul letto, ma senza essere
mosso da precisi interessi e senza pormi dei traguardi né sapere
perché. Dentro il mio petto covava un'indolenza fastidiosa che
mi faceva sprecare le energie in speranze malinconiche e
indistinte, lasciandomi intristito nel chiuso della stanza di cui
scarabocchiavo le pareti, quasi istoriando la mia tomba. Non
riuscivo più ad avere amici, uscivo poco per la città e lo studio
era  l'unica attività che praticavo, nel totale disimpegno che
rendeva lunghe le mie giornate (e le riempiva di sbadigli).
Penso,  ora, che non ho saputo vivere la mia adolescenza o,
addirittura, che non esisteva la possibilità di viverla per la mia
generazione, ma di sicuro avevo perduto l'impeto che mi aveva
animato a Tricastro e che era necessario per ottenere che mi
fosse garantito il mio essere ragazzo,  rimandando alla maggiore
età l'assunzione di qualunque  impegno adulto. Perciò studiavo
e, in mancanza di  indicazioni e suggerimenti, studiavo le
materie di scuola, procedendo nei programmi tanto che, col solo
aiuto morale della zia Letterio, io sono stato capace di saltare sia
la  terza media sia la terza liceo, presentandomi ai due esami da
privatista e prendendo il diploma di maturità in sei anni di
studio,  invece degli otto previsti dal corso di studi.
 
 

 Infatti, io mi sono diplomato al liceo classico di Aquila nel
mese di Luglio del 1955, quando non avevo ancora compiuto i
diciassette anni. Anzi, la notizia della mia precoce maturità
arrivò per telegramma dagli zii Letterio proprio  nel giorno del
mio compleanno e poiché si trattava di una bella impresa, la
notizia comparve alcuni giorni dopo (il sette Agosto, per la
precisione) nella cronaca locale  del quotidiano Il Messaggero. Io
trovai buffo che il trafiletto facesse  per me i complimenti a mia
madre e a mio nonno ma non posso negare che la pubblicazione
del mio successo scolastico mi fece piacere e, dopo aver
provocato le lacrime di mia madre (che da anni aveva
dimenticato la mia vita di discolo alle elementari concependo
per la mia bravura a scuola un forte senso di rispetto e quasi di
soggezione nei miei confronti) io, con la copia del giornale in
mano, ero sceso nella stalla per leggerlo a mio nonno. Nei
diciassette anni della mia vita, nonno Teodolindo non aveva
cambiato neppure un'abitudine e, a parte qualche acciacco che
lo faceva straparlare mentre si batteva con vigore le gambe non
più agili, maledicendo «lo scirocco degli ottanta anni», non si era
mai ammalato nemmeno per un giorno. Per questo mi stupì il
silenzio che trovai nella stalla e non riuscivo a capire perché  gli
animali (adesso c'erano solo due asini vecchi, Giuseppe e
Antonio, un mulo  di nome Giobbe e una vacca giovane che si
chiamava Ornella) mi guardassero immobili, con le teste  girate
verso di me, insieme dolorosi e sollevati. Persino le stie dei
conigli e delle galline erano incredibilmente prive di movimento
e io passai lunghi attimi interdetto a fissare gli occhi dilatati
delle bestie prima di voltarmi indietro, quasi seguendo le loro
indicazioni. Mio nonno, tutto scomposto sulla carriola, era già
morto da tempo. Giaceva  con la testa appoggiata  sulla ruota, la
bocca sdentata tutta aperta, gli occhi spalancati ma senza luce
né espressione, una mano abbandonata e inerte e l'altra
irrigidita in un impaurito gesto di difesa, le gambe piegate in
modo così innaturale da sembrare  spezzate tutte e due. Era il
terzo morto che vedevo in vita mia ma fu il primo che mi
sconvolse nel profondo, né l'impressione mi passò quando
Bambina e Uliano ebbero aiutato mia madre a ricomporre il
corpo in modo tale che, non so come, mio nonno riprese i
connotati perduti e persino la sua espressione abituale  (ma il
ricordo di quel  terrore impietrito sulla carriola mi è rimasto
sempre addosso, trasformato a poco a poco in una paura
intermittente che, di quando in quando mi ha  perseguitato
debolmente).
 
 
 
 
 

11
 
 
 
 

 Il funerale di mio nonno fu il più solenne nella storia
recente di Tricastro e la voce che girava tra la gente era che
nemmeno ai Baroni era mai stato riservato un tale concorso di
pubblico. Ad onorarne la salma venne tutta Tricastro, molta
gente dai paesi vicini, nonché gli zii Letterio che prima di allora
non si erano mai visti in paese.  Vennero anche tutti i  notabili
del circondario, ad eccezione di Bruno Baroni che però, da Roma,
mandò Matteo di Serenato a rappresentarlo (l'anziano domestico
abbracciò mia madre, salutò me chiamandomi degno erede di
mio nonno  e infine sostò lungamente davanti alla bara ancora
aperta). Venne anche, da Colle Ultimo, Matto Sinni, a riverire
(così disse) con il morto la figlia e il nipote e a scusarsi  se non
partecipava al funerale per urgenti impegni che lo portavano
fuori di Tricastro. Nella chiesa,durante il rito funebre, l'arciprete
completò la solennizzazione di mio nonno elogiandone la
grandezza d'animo, ricordando l'aiuto che aveva sempre dato
agli abitanti più deboli di Tricastro e non tacendo la sua laica
rassegnazione alla morte proprio mentre invocava per lui
l'eterno riposo. A quasi tre giorni dalla scoperta del cadavere io
cominciavo ad assorbire il colpo e sbirciavo con qualche disagio
la gente che partecipava alla cerimonia quando mi accorsi che
era venuta anche Nunziatina  (suo padre, forse già partito, era
comunque assente nella chiesa). Alta nel suo abito scuro, la
massa bruna dei capelli tirati dalla crocchia sulla nuca,
Nunziatina io l'avevo riconosciuta al primo sguardo poiché la
metamorfosi del suo corpo  non aveva mutato la sua lenta
tristezza che ora, anzi, era  accentuata dalla fitta peluria che  le
ricadeva sulle orecchie dall'alto delle guance.  I suoi occhi, come
sei anni prima, erano quasi sempre spenti ma, ogni tanto,
lampeggiavano meravigliosamente e i suoi sguardi, in quella
chiesa colma di gente, mi riportavano vividi i ricordi della mia
felicità nella classe tumultuosa della maestra Vento,
cancellando in me il senso di provvisorio che mi malediceva da
quando ero uscito dal giro protettivo delle montagne di
Tricastro e di cui mi accorgevo in quel momento.
 
 

 Protetta dal suo tailleur di stoffa scura sulla camicia
bianca e su una sorta di cravatta, Nunziatina si girava verso di
me, sorpresa e insieme rassicurata dai miei sguardi, e io  sentivo
il cuore che mi batteva nelle mani. All'improvviso, avevo
bisogno di parlarle e anzi mi pareva che per rassicurarmi non
dovevo fare che questo, recuperando con lei una vita che non
avevo saputo sostituire e che avevo a torto rifiutato, ma, giunti
al cimitero, Nunziatina era sparita mentre io non solo dovevo
aspettare la fine della cerimonia   (con la chiusura del loculo che
mio nonno possedeva accanto a quello della moglie  morta  da
più di trenta anni) ma anche essere presente al pranzo di
condoglianze preparato dagli zii Letterio. Tuttavia, continuavo a
sentire  intorno a me misteriosi richiami e, dopo cena, uscito
nuovamente di casa, mi ritrovai dopo tanto tempo sulla strada
di Colle Ultimo. La notte  era ormai scesa, con tutte le sue stelle
sconosciute, e la finestra dello stalluccio era sbarrata e  troppo
piccola per la mia attuale corporatura, ma, all'ultimo momento,
ebbi paura di bussare alla porta del castelletto (anche se Matto
Sinni aveva detto che partiva e se proprio questo i miei richiami
mi dicevano di fare). Rassegnandomi passo dopo passo, tornai
indietro fino al  Lago Lucciola, che quell'anno era ancora in
piena e da cui saliva forte il gracidare delle rane. Avevo
continuamente l'impressione di essere seguito e nel buio vedevo
comparire tenui figure di fantasmi che non mi impaurivano solo
perché l'aperto della notte mi aveva sempre fatto questo effetto
e fu per questo che,  inizialmente, mi sembrò un  miraggio della
mia fantasia la vista di Nunziatina  che, alta, le scarpe in mano,
si era rifugiata tra i giunchi della riva per non mettersi in
mostra alla luce della luna. Non mi fu difficile raggiungerla
perché non mi fuggiva (anzi, era lei che mi seguiva dall'inizio)
né, senza dire una parola, baciarla sulla bocca, reprimendo senza
difficoltà l'impulso di palparle il sedere e facendo durare il
primo bacio d'amore fino a quando rimanemmo senza fiato.
Nunziatina aveva appena compiuto diciotto anni (volle sedersi
perché la luce del plenilunio ci rendeva visibili e io ne
approfittai per sdraiarla sull'erba asciutta dell'estate)  e la
quieta febbre che ardeva nei suoi occhi dava al suo volto una
così pura luminosità che i suoi lineamenti  si erano trasmutati
diventando per me  meravigliosi.
 
 

 Io  capivo che, allentando la sua guardia, Nunziatina stava
scoprendo per me la sua bellezza, mentre diventava
affascinante  la sua bocca modellata da grandi labbra sporte in
fuori, che io baciavo estasiato e che, aprendosi al sorriso,
ingigantivano la testa sul corpo sottile  facendo rilucere i capelli
che  lei aveva sciolto e che io carezzavo. Avevo perso ogni voglia
di parlare quando mi ero accorto che Nunziatina non si
opponeva alle mie avances, lasciandomi scoprire l'inedita
morbidezza dei suoi seni e subito dopo il ciuffo rigoglioso del
suo sesso, ma lei parlava ininterrottamente (riempiva di voci il
mio silenzio), dicendo che si considerava la mia sposa da quando
ci eravamo uniti nello stalluccio da bambini, che  aveva resistito
a suo padre  (che voleva ucciderla) e non gli aveva mai detto chi
era scappato da quella finestrella, anche se suo padre, non
avendo pensato a controllare la strada proprio perché la finestra
era così piccola,  aveva subito capito  che chi aveva avuto
l'ardire di insidiargli la figlia sotto gli occhi  era piccolo di
complessione o, forse, di età  (e aveva fatto  il mio nome). Io
l'ascoltavo attento e capivo ora tante cose che per anni mi
avevano dato da pensare ma, ormai impaziente malgrado la
paura retroattiva che provavo, ero salito su di lei e la stavo
premendo con tanta decisione ed imperizia che Nunziatina si
lamentò. «Mi fai male», disse con una voce che non ho più
dimenticato ma, come ebbe un guizzo per sottrarsi al dolore,
tutto si era accomodato e io mi trattenevo fermo per
convincermi che  ero penetrato dentro di lei, mentre  un silenzio
carico di tensione faceva vibrare i suoi capelli (e li allungava) e
la luce dei suoi occhi, neri e brillanti come due more lavate di
fresco, rendeva la sua pelle candida come la faccia della luna.
Impossibilitato a qualsiasi tipo di calcolo, io mi mossi
emozionato ed ebbi subito il mio orgasmo mentre la mano di lei
(piccola e dura) mi contava i respiri sul collo e la sua voce
alterata ripeteva parole per me stupefacenti. Si era data a me
come mia sposa, pur considerandomi altezzoso e sconoscente
(incapace di riposare dove ero nato come facevano mio nonno e
suo padre) e si apprestava a essere infelice perché le mie
intenzioni non potevano andare bene anche per lei.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

12
 
 
 
 

 Il giorno in cui mio nonno fu sotterrato io dunque conobbi
l'amore ma per mia madre quel giorno fu doppiamente
drammatico perché alla perdita del padre si sommò per lei
anche quella del figlio. Io a casa ero tornato alle quattro del
mattino (quando già le stelle cominciavano a cancellarsi nel cielo
e il giro delle montagne era già orlato di luce) ed ero rientrato
tra mille precauzioni rivelatesi immediatamente inutili. Infatti
né mia madre né gli zii Letterio avevano chiuso occhio in quella
notte e mi stavano aspettando sempre più impazienti. Loro non
mi chiesero nessuna spiegazione  ma io mi accorsi  che nella
stanza si respirava un'aria silenziosa di tragedia, sproporzionata
per qualunque cosa avessi fatto, e che mia madre aveva già
pianto tutte le sue lacrime. Mi fecero sedere,  offrendomi in
silenzio del caffè, e mia madre pregò lo zio Letterio di mettermi
al corrente delle novità prima di ritirarsi in camera sua dove io
la dovevo raggiungere quando lo zio avesse finito di parlarmi.
 
 

 Venni così informato che, a mezzanotte, in casa nostra si
era presentato Matto Sinni a cercarvi sua figlia Concettina o
Nunziatina (a questo punto lo zio Letterio mi guardò a lungo con
aria interrogativa per sapere se avevo qualcosa da rispondere
ma io rimasi del tutto muto e inespressivo inducendolo a
continuare il discorso) e che, avendo capito che i miei di sua
figlia non ne sapevano nulla, Matto Sinni aveva chiesto di
parlare con me (lo zio Letterio fece qui una pausa calcolata per
tenermi sulle spine ed era questo il suo modo solito di essere
cattivo). Conoscendone il carattere, mia madre aveva creduto
bene di non mentire  e a Matto Sinni aveva detto la verità
(quella, osservò lo zio Letterio, che loro credevano essere la
verità), e cioè che io non avevo quasi mangiato e che ero uscito
a passeggiare con gli amici come facevo spesso, ma Matto Sinni
si era messo gelidamente a ridere e aveva promesso che
sarebbe tornato a cercarmi in casa l'indomani per chiedermi che
cosa avevo intenzione di fare con sua figlia se non volevo finire
ucciso come un animale (lo zio Letterio pronunciò con voce
ferma queste parole ma gli tremava una guancia in un curioso
tic che non gli avevo mai visto). Matto Sinni, quelle parole, le
aveva dette senza alterarsi, rivolgendosi esclusivamente allo zio
Letterio e raccomandandogli di informarne mia madre che pure
era presente nella stanza, e questa sua agghiacciante calma era
stato l'indizio più sicuro della serietà che bisognava attribuire
alle sue affermazioni. Poi,  lo zio mi espose la ricostruzione dei
fatti che era stata adottata dalla mia famiglia mentre attendeva
il mio ritorno e indipendentemente dalle mie eventuali
responsabilità (lo zio Letterio mi guardò a questo punto con
grande intensità, obbligandomi ad abbassare lo sguardo).
Secondo quella ricostruzione, anche ammesso che io non avessi
proprio visto Nunziatina, Matto Sinni e sua figlia avevano
ugualmente approfittato della mia ingenuità, agendo di concerto
per incastrarmi  (lo zio Letterio si espresse proprio così) con un
matrimonio precoce e per molti aspetti declassante. Io sussultai
ma lo zio Letterio, abile nel non vedere ciò che non voleva
vedere, non notò la mia reazione che pure era la prima e mi
disse invece che non poteva essermi sfuggito il fatto singolare
che, mentre era venuto a riverire  la salma in casa, Matto Sinni
non era venuto al funerale cui però era intervenuta la figlia, che
non respirava neppure senza il permesso del padre ma che
aveva approfittato degli inverosimili impegni fuori del paese,
sbandierati da suo padre a tutti quanti, per considerarsi libera
di agire a suo piacere e farsi vedere in giro come non aveva
fatto mai.
 
 

 Questo comportamento, si capisce, era stato adottato per
incontrarsi con me, fingendo che tutto avvenisse all'insaputa del
padre ma in realtà per dare a Matto Sinni il modo di venire al
Primo Colle a gettare le premesse per lo scandalo. Puntualmente
perciò, Matto Sinni era tornato all'improvviso dal suo viaggio di
affari appena incominciato e, non trovando la figlia,  aveva
avuto la certezza che poteva scendere alla casa onorata di
Teodolindo per proporre il suo ricatto. A questo punto avrei
dovuto parlare io e, allo zio Letterio,  avrei dovuto dire che il
mio incontro con Nunziatina era stato provocato solo dal
pensiero che ci univa  da quando avevamo dieci anni, e che  non
avevamo bisogno di tanti sotterfugi perché  il coraggio di farsi
vedere con me Nunziatina lo aveva avuto anche da bambina,
non solo ricevendomi nello stalluccio quasi sotto gli occhi di suo
padre, ma baciandomi, al funerale di Pùrito, davanti agli occhi di
tutti. Molte altre cose avrei potuto e dovuto dire e tuttavia non
dissi nulla, sia perché ero effettivamente spaventato dalle
minacce di Matto Sinni, che mi accorgevo di avere provocato più
di quanto  avessi mai pensato, sia perché era effettivamente
sgradevole il pensiero che Nunziatina fosse d'accordo con suo
padre e che per questo chissà quante volte, prima di
incontrarmi, mi aveva aspettato al Prato dove io andavo da
bambino a mettermi in mostra  per lei. D'altra parte, non mi fu
chiesto nessun parere e io accettai la situazione senza
protestare, spaventato dagli impegni che avrei dovuto prendere
se avessi difeso il mio rapporto con Nunziatina e subito convinto
a raggiungere mia madre che mi aspettava in camera sua.
 
 

 Mia madre aveva schermato con uno scialle la lampada
accanto al letto e, nella penombra della stanza, io la vidi come
rimpiccolita dal dolore e quasi senza forze se non negli occhi,
freddi e decisi come  non glieli conoscevo. Mi mostrò un involto
che teneva sul letto e la valigia piena di indumenti che stava
ancora aperta appoggiata su due sedie. «Quella è la tua roba»,
mi disse mia madre alzando finalmente gli occhi verso di me che
la guardavo impensierito (perché solo di fronte a lei mi
vergognavo di non poter negare il mio rapporto con Nunziatina).
«Tu ora te ne vai», mi stava dicendo mia madre, «esci da
Tricastro per sempre». Seduta sul bordo del letto, aveva preso il
suo involto e ne slegava il nastro per mostrarmi il contenuto.
«Non abbiamo più tempo per noi», mi diceva, «alle sei arriva il
tassì degli zii Letterio e tu parti con loro». Ma evitava di
guardarmi, parlando, ed esitava tanto che io non capivo più se il
suo imbarazzo dipendeva dal suo rivolgersi a me credendomi
colpevole o comunque responsabile della separazione, o se si
vergognava di se stessa e di ciò che stava per dirmi. «Non ci
vado», dissi per precipitare le sue confessioni, «io dagli zii
Letterio non ci torno». «Ma tu non vai da loro», disse allora mia
madre arrossendo violentemente, «gli zii Letterio ti portano al
treno che tu prenderai diretto a Roma». Si era fermata senza più
fiato né pianto, vistosamente boccheggiando, ma anch'io ero
rimasto stupefatto. «A Roma», dissi, «ma se non conosciamo
nessuno, a Roma». «Ma tu vai a Roma», disse mia madre
raccogliendo le forze (proprio mentre mi tornava in mente la
profezia che mi aveva fatto la fata), «da tuo padre».
 
 

 Per mascherare l'agitazione, mia madre si era messa ad
allineare sul letto gli oggetti dell'involto. Erano un prezioso
coltello da caccia con  iniziali intrecciate di difficile decifrazione
(io pensai che anche l'ufficiale tedesco le aveva regalato un
coltello),  un gemello d'oro a forma di scarpa con fibbia di
diamante infilato nell'asola di un polsino inamidato di camicia,
l'orecchino che io avevo ritrovato nel nascondiglio delle piche (e
ora capivo perché mia madre si era tanto disperata quando si
era accorta di averlo perduto), un estratto del mio certificato di
nascita  tagliato a metà  con sopra stampigliata la scritta  tribus
detestata , una busta sigillata indirizzata a  Tilde  Lupi e una
lettera di mia madre,  anch'essa chiusa in una busta ma ancora
senza destinatario,  in cui era spiegata la mia situazione . «Devi
presentarti a tuo padre con queste cose  e lui ti riconoscerà», mi
disse mia madre cominciando a scrivere con mano ferma il
nome e l'indirizzo di mio padre sulla busta. Dunque, all'età di
diciassette anni compiuti, io venni a sapere di essere figlio di
Bruno Baroni e riconobbi che erano due B intrecciate le lettere
scolpite sul fodero e sul manico del coltello da caccia, mentre
riavvertivo sulla testa le carezze che mio padre mi aveva fatto
quando ero un bambino e lo incontravo per le strade del paese.
Debbo anche dire che presi atto della inedita presenza di mio
padre senza particolare emozione, mentre era mia madre ora
che voleva parlare dicendomi che Bruno (lo chiamava così)
doveva sposarla e che per lui aveva rotto la promessa fatta a
Francesco Bellafronte. Il matrimonio poi non si era fatto perché
mio padre era stato  per morire (affatturato da Magìa, disse mia
madre), ma io alla sua storia d'amore non riuscivo a
commuovermi e anzi le sue parole quasi di scusa mi
provocavano sentimenti di scostante freddezza e mi rendevano
sempre più estraneo a Tricastro e a quella casa dove pure ero
nato. Pensavo che la verità su questa storia l'avesse  detta mio
nonno (come al solito, indirettamente) e che, perciò, io ero nato
solo perché una sera a casa nostra era venuto un tale che  aveva
parlato con mia madre. «Stasera devi salire a palazzo», erano
state le laconiche parole che non avevano atteso la risposta e
mia madre  aveva aspettato che suo padre rientrasse e che
Francesco Bellafronte venisse a tenerle compagnia prima di
girare la richiesta.   I due uomini avevano abbassato lo sguardo
e, se mio nonno aveva in seguito accolto il nipote di buon grado
(non potevo negarlo) Francesco Bellafronte non ce l'aveva fatta
ed era  emigrato sparendo dalla vista.
 
 

 «Se me ne vado adesso non torno più», dissi laconico a mia
madre. «Lo so», fu la risposta più rassegnata di quanto avrei
voluto, «ora tocca a Bruno occuparsi di te, su questo siamo
d'accordo da quando sei nato». Mi sorpresi a pensare  che  la
mia partenza era solo anticipata di qualche mese rispetto agli
impegni universitari a cui comunque doveva provvedere mio
padre,  ma io ora sapevo che non sarei mai più tornato perché
non avrei più sopportato di incontrare lo sguardo di Nunziatina.
Bussò alla porta lo zio Letterio, interrompendo quel penoso
colloquio, per  avvertire  che il tassì era arrivato e che non era
opportuno farlo sostare a lungo nella strada. Mia madre non
piangeva mentre chiudeva la mia valigia riponendovi dentro
l'involto con le prove e la mia partenza avvenne nel silenzio, del
tutto all'improvviso. Obbedendo ai consigli dello zio Letterio, io
non mi feci vedere mentre mia madre era uscita nella strada e
aiutava gli zii a caricare sul tassì i bagagli (compresa
naturalmente la mia valigia), ma quando gli zii si furono seduti
sul sedile posteriore e il motore fu acceso e mia madre iniziò la
pantomima dei saluti,  io uscii  da dietro la porta dove ero
nascosto e mi sedetti velocemente accanto al conducente che
immediatamente partì. La dinamica di quella fuga, studiata per
il caso che  Matto Sinni  sorvegliasse  la nostra casa anche di
notte, fu perfetta e io partii per sempre da Tricastro senza nessun
incidente ma senza aver potuto salutare mia madre.
 
 
 
 
 
 
 

 


Last revised 27 April 1999  - Andrea Di Cicco